Cosa sta mostrando il mismatch tra algoritmi e domanda e offerta di lavoro? | Roberta Martini

Cosa sta mostrando il mismatch tra algoritmi e domanda e offerta di lavoro?

Pubblicato il 21 Marzo 2025 in Syntropia

Negli ultimi due anni vengo a conoscenza di un fenomeno che vale la pena approfondire.

Non mi occupo direttamente di talent acquisition, ciononostante osservo che il numero delle persone che si candidano per una posizione dopo poche ore lievita vertiginosamente. Questo dato riguarda le persone che lavorano in azienda, dai middle manager fino ai neolaureati.

Trascuro gli executive, per loro il processo e la realtà è un po’ diversa, come mi raccontano i miei clienti.

Senza entrare nel merito, i recruiter parlano di come il 90 per cento delle candidature siano di aspiranti totalmente non qualificati.

Quello che mi interessa evidenziare:

  • sono moltissime le persone che desiderano cambiare lavoro, per i motivi più disparati, che si riassumono nella suddetta frase: “…osservo dei comportamenti che mi disgustano…..voglio andare via da questa azienda….”
  • la maggior parte delle organizzazioni “arrancano” nell’attrarre e/o trattenere i migliori
  • la domanda sembra non trovare corrispondenza con l’offerta
  • nonostante il ricorso all’AI nei processi di talent acquisition, che a mio avviso dovrebbe generare un’efficacia nella customer experience del candidato se ben utilizzata, quest’ultimi ricorrono ad una narrazione prevalentemente negativa.

Nella fase di applicazione provano un estraneamento dal mercato, ovvero dichiarano che il fit con la posizione ricercata sia molto alto eppure non vengono convocati. Siamo arrivati di conseguenza al “delirio”, ovvero cercare di bypassare AI con parole in bianco sul proprio cv.

Cosa indica questa spinta al cambiamento oltre misura, nonostante la letteratura psicologica evidenzi chiaramente che tutti, e dico tutti, abbiamo più o meno resistenze al cambiamento, operando in una logica di mitigazione del rischio?

Come si trovano le persone nelle organizzazioni, oggi?

Le persone scomodano un’emozione, il disgusto, che equivale a una sensazione di rifiuto verso qualcuno o qualcosa che potrebbe danneggiarli.

Partendo dal presupposto che le emozioni sono necessarie e hanno funzioni specifiche che promuovono la sopravvivenza e l’adattamento umano, ciò che troviamo disgustoso non vale quindi per tutti: è universale l’emozione del disgusto, ma non ciò che la stimola.

Eppure è la parola più ricorrente che emerge dalle persone che lavorano nelle multinazionali.

Bisogna tener presente che più un’emozione è intensa, più motiverà il comportamento ad essa correlato. La risposta al disgusto ha come obiettivo l’allontanamento dallo stimolo disgustoso.

Da qui la fiumana umana di persone che cerca di ricollocarsi…

Nella letteratura scientifica alcuni autori suggeriscono che il disgusto sia identificato come una delle otto emozioni di base degli esseri umani (Robert Plutchik). Secondo la maggior parte degli autori invece il disgusto va considerato semplicemente come una risposta sensoriale ad uno stimolo rivoltante associato ad una reazione fisiologica (come nausea e vomito). Affinché il disgusto sia identificabile come un’emozione in quanto tale, è necessario che questa reazione venga ri-simbolizzata cognitivamente, cioè gli venga attribuita una interpretazione che fornisca una valenza affettiva. Parliamo infatti di disgusto sociale e morale.

Il primo può essere considerato come una forma di disgusto associata al ricordo nel comportamento o nell’aspetto, quelli propri degli animali, che in una certa cultura non sono socialmente accettabili.

Il secondo è essere associato a violazioni del codice morale di cui la persona è ritenuta responsabile. Il conseguente evitamento non sarà legato solo al distanziamento fisico, ma al distanziamento sociale che assume una doppia valenza, una punitiva (nel disprezzo morale) e l’altra difensiva, al fine di operare un distacco “protettivo” dal rischio di contagio morale.

Il disgusto comporta una certa sensibilità alla contaminazione ed un conseguente evitamento guidato dalla paura stessa.

Ecco perché si dice che il disgusto è “viscerale”, in quanto derivato da esperienze legate alla paura della contaminazione e caratterizzato pertanto da un’esperienza spiacevole.

Per tutto ciò il disgusto richiama l’etica, assumendo una funzione adattiva in quanto misura autodifensiva rivolta a condannare determinati illeciti comportamentali.

Tra allontanamento, evitamento, paura della contaminazione..…questa emozione mette in luce organizzazioni in difficoltà…..

Cosa stanno facendo e/o non facendo le organizzazioni per provocare questa repulsione collettiva?

Il dipartimento maggiormente impattato in queste tematiche è quello hr.

Una delle priorità dell’hr department in questi anni è individuare come invertire la tendenza con leve che mirano ad attrarre e trattenere le persone, a partire dalla domanda:

“perché” le persone vogliono andare via?

In apparenza sembrerebbe una domanda efficace, analizzando le logiche per trasformare la prospettiva.

Se le organizzazioni investono in leve di retention è come se focalizzassero l’attenzione sul problema:” le persone che vanno via”.

Trovare una risposta partendo dal problema è simile a trovare una soluzione partendo dall’opportunità?

Siamo sicuri che sia opportuno riflettere sul problema e in più chiedendosi il perché?

Una recente ricerca (HBR Tasha Eurich, PhD mostra che le domande “perché” è probabile che arrivino a una spiegazione incentrata sulle paure, carenze o insicurezze, piuttosto che su una valutazione razionale della situazione.

Le domande “cosa” ci aiutano a rimanere obiettivi, focalizzati sul futuro e autorizzati ad agire in base alle nostre nuove intuizioni.

Non è forse più efficace che le organizzazioni individuino, seriamente e in modo strutturato, cosa vogliono fare per creare organizzazioni per le quali valga davvero la pena di lavorare come dipendenti e di scegliere come clienti?

Già solo leggerlo mi porterebbe a desiderare di lavorare in quell’azienda!

In questo modo le organizzazioni lavorerebbero altresì sui driver più importanti che le persone considerano nella scelta di un nuovo datore di lavoro, come per esempio:

  • buona reputazione
  • ambiente sereno
  • buon equilibrio lavoro-privato
  • retribuzione e benefit stimolanti
  • progressione di carriera

Alcune organizzazioni, fortunatamente non tutte, mi sembra che vivano sospese in uno stato di torpore, ovvero come se avessero perso la propria speranza di puntare in alto, con e grazie alle persone che le costituiscono.

Da una parte attivano molte iniziative di wellbeing. Dall’altra sono in balia dei conti che non tornano mai, per costi di gestione e operativi crescenti, l’inflazione crescente, l’incertezza geopolitica, i conflitti insanabili.

Si dimenticano, di conseguenza, di curare l’ambiente di lavoro, in termini di clima, e di opportunità di espressione e crescita delle persone che vi lavorano.

Si creano così dei sistemi organizzativi incentrati su legami sfilacciati dalla diffidenza, dove si percepisce una fiducia fragile.

Le persone immaginano e, ahimè, sperimentano che questo sbilanciamento verso l’altro, tipico della fiducia che richiama l’affidarsi all’altro – Michela Marzano – comporta inevitabilmente, all’interno delle organizzazioni, che le proprie aspettative vengano deluse.

Se consideriamo la speranza come la sorella gemella della fiducia, quali saranno le conseguenze di questa fiducia fragile?

Avremo una speranza che via via si affievolisce, esattamente come la fiducia fragile.

Per avere fiducia bisogna essere inclini ad accettare il rischio connesso all’affidarsi all’altro.

Perché correre questo rischio, senza più speranza?

Fortunatamente ci viene in aiuto un grande scrittore, David Grossman, che suggerisce che la fragilità della fiducia non è un difetto, anzi, ci svela qualcosa della nostra fragilità.

Quest’ultimo afferma che “l’essere umano quando si riconosce fragile, si fida di più, mentre quando si trova costantemente in un conflitto diventa un grande guerriero”.

“Se ci permettiamo di avere una “crepa” non dobbiamo più utilizzare la nostra fragilità radicata dentro di noi come uno scudo con cui proteggerci dal mondo, alfine di non renderla visibile. Saremo in grado di vedere con gli occhi del proprio “nemico” e quindi i rapporti cambiano, perché non guardiamo il nemico come qualcuno che non cambierà mai”.

In momenti così bui questo messaggio ci sostiene a impegnarci ostinatamente verso una direzione contraria, per uscire da questo oscurantismo.

“Quando veniamo al mondo, afferma Grossman, non siamo altro che fiducia, apprendendo attraverso gli occhi dei genitori. Poi succedono degli inciampi. Quando all’opposto si è abituati ad una vita di odio non ci ricordiamo più di essere buoni, in pratica di stare al mondo per vivere ad un livello più alto. Siamo sospettosi, monodimensionali, con un unico livello di pensiero che è quello dell’odio”. Bisogna tornare lì, alla qualità che avevamo nell’infanzia”.

Possiamo mutuare questi concetti nelle organizzazioni?

Penso proprio di sì, partendo dal presupposto di quanto sia facile sentirsi nemici nelle organizzazioni.

Sentirsi non nemici, invece, comporta di questi tempi avere una fiducia folle, come quella che unisce due persone nella vita, dove ciascuno consegna all’altro la propria felicità.

Le persone che abitano le organizzazioni dovrebbero avere una fiducia folle, consegnando all’altro la propria fragilità, perché non più vista come crepa da nascondere. Così facendo potranno osservare e vedere da più punti di vista e ritrovare un dialogo non più sospettosi, avendo recuperato così un sentimento di speranza. E lo farebbero insieme, convivendo serenamente con titubanze, sperimentazioni, frustrazioni, scoperte, esserci quindi con un’apertura di credito verso l’altro, alfine di mobilitare l’intelligenza collettiva verso risultati comuni.

Ci vuole coraggio oggi per rallentare e favorire un buon ascolto e pensieri lenti.

Ci vuole coraggio oggi per togliere e fare spazio.

Ci vuole coraggio oggi nell’essere vulnerabili per dimostrarci che abbiamo bisogno degli altri.

Ci vuole coraggio oggi per esserci e riconoscere lo stress che subiamo.

Ci vuole coraggio oggi per guidare la crescita dell’azienda con pazienza.

Concludo ricordando che rischiamo di perdere molto e, forse, tutto, aggrappandoci all’odio piuttosto che al coraggio, per compensare l’ansia crescente di questa inquietudine profonda.

Io non ci sto!

E voi?