La scorsa settimana ho partecipato all’evento di chiusura del primo progetto di empowerment femminile, ‘Mentorship Milano’ lanciato dall’assessora alle politiche del lavoro del Comune di Milano, Alessia Capello.
Per natura sono più portata a fare che apparire ma avendo preso l’impegno di esserci, per valutare insieme a tutti gli attori la “consistenza” dell’iniziativa, davo per scontato di presenziare, seppur con sentimenti contrastanti.
Ho aderito a questo percorso per curiosità, lo confesso. Di questi tempi sono apolitica e sentendomi in difetto per questo mio atteggiamento, come persona con un senso civico, volevo toccare con mano se tutto ciò che ruota intorno alla vita politica fosse un bla bla bla oppure…
Non ho contezza del tutto, ho semplicemente partecipato a questa iniziativa, ma quello di cui ho avuto esperienza è che l’assessora ha creduto, disegnato e veicolato questa idea-iniziativa con un portato valoriale rilevante.
I gesti non mentono per chi sa osservare e ascoltare e questo è quello che ho vissuto con lo speech dell’assessora Alessia Cappello.
Sono doppiamente contenta di aver partecipato a questo progetto:
Grazie Assessora Alessia Cappello!
Grazie alle belle mentor che ho scelto di avvicinare, per curiosità…e mi si è aperto un mondo di simpatia, ironia e voglia di approfondire!
E’ scontato ma lo voglio esplicitare: un GRAZIE voglio destinarlo alle mie splendide mentee che hanno fortemente voluto partecipare a questa iniziativa, con fame di ascoltare, sapere, chiedere, condividere dubbi e dolori, con il loro carico di meraviglie personale e unico!!
Condivido ciò che sto osservando, curiosa di ricevere le vostre riflessioni.
Dalle mie ultime esperienze professionali, svolte nelle organizzazioni complesse nel periodo 2022-2023, emerge che:
Non vogliono cadere nella trappola di indicare una direzione.
Sanno che non possono avere fretta di togliere al più presto i “sintomi”, non avendo chiaro dove andare, piuttosto, vogliono comprendere il senso all’interno di questa complessità e contraddittorietà, con l’inclusione delle persone.
La loro visione etica del lavoro è quella di essere un “centro di competenza e potere”. In questa logica interessa poco cercare di comprendere piuttosto indicare la via.
Osservo i più che pensano che quello che vivono nel loro quotidiano organizzativo sia la nuova normalità a cui dovranno adattarsi.
Una minoranza re-agisce, con coraggio. Le Great Resignation sono diventate un metodo di sopravvivenza allo stato di emergenza, per fronteggiare questa crisi.
Le generazioni maggiormente impattate sono la Generazione X e i Millennials, che ben sanno che per far fronte a questa crisi bisogna riconoscerla e accettarla.
Loro pensano che la direzione emergerà nel corso della ricerca comune.
Il futuro cambia segno?
Stanno cambiando le regole del lavoro?
Voi cosa ne pensate?
Emerge un dato: quanto gli aspetti umanistici siano dei bisogni che accorpano tutte le quattro generazioni presenti in azienda.
Valori, cultura e work-life balance sono fondamentali per le 4 generazioni.
I #Millennials e la #GenZ sono interessati prevalentemente da opportunità di carriera “pensata e customizzata” per loro, una cultura aziendale inclusiva, un’organizzazione trasparente e aperta.
I #Boomer prediligono la stabilità e una cultura che condivida i loro stessi valori sociali, quali la collaborazione l’appartenenza ecc.
I #GenX si motivano con la flessibilità oraria e di carriera nonché trovare un senso in quello che fanno, coerentemente con le scelte nella loro vita privata.
Cosa propongo nella frattura tra presente e futuro?
L’aspetto che mi interessa non è focalizzare l’attenzione su nuove teorie bensì su nuovi metodi pratici.
Tra i trend da tenere d’occhio con cura ci sono:
1. le soluzioni formative aziendali che devono offrire proposte di apprendimento che veicolino contenuti trasversali e specifici insieme a momenti che nutrano le leve motivazionali di coinvolgimento.
È necessario che le aziende comincino a guardare alla formazione come una leva possibile per rispondere al bisogno delle persone di più autonomia, padronanza e scopo, nelle proprie responsabilità di business e organizzative.
Le persone vogliono poter accedere a queste opportunità di apprendimento, che comportano fatica aggiuntiva rispetto alla loro routine quotidiana, con la possibilità di ritornare nel Sistema organizzativo con proposte concrete di miglioramento e cambiamento rispetto alla realtà organizzativa che li riguarda, ben sapendo che ci sarà spazio per la “messa a terra”.
Questa esigenza si traduce per me facilitatrice/formatrice in una responsabilità precisa, ovvero di proporre iniziative che prevedano un viaggio articolato in differenti step:
” alternanza di microlearning con pillole di formazione, anche in formato digitale;
” esperienzialità che facciano riflettere sui propri comportamenti agiti e sull’impatto che hanno sugli altri, per accelerare i tempi di consapevolezza, grazie all’autovalutazione con il supporto del gruppo di lavoro;
” laboratori di pratica on the job con contenuti personalizzati, per dialogare e confrontarsi sulle difficoltà del quotidiano, allenandosi costantemente;
” per ultimo, ma non per ultimo, curare un design che leghi i momenti formativi in aula, guidati dal facilitatore, con momenti gestiti in autonomia dai partecipanti stessi, prevedendo la possibilità di coinvolgere direttamente le persone stesse che lavorano nell’organizzazione, in processi di mutual learning e reverse experience.
2. passare ad un utilizzo delle leve gestionali con una visione olistica (vedere il Sistema organizzativo vivente con le sue diversità ma anche con le sue unità effettive e potenziali) e con un approccio sistemico (agire su tutte le leve contemporaneamente e in modo connesso).
Ricorro a un esempio concreto partendo da una domanda: il mentoring è ancora una leva strategica gestionale per rispondere ai bisogni delle persone?
Per come lo abbiamo inteso fino ad ora – un processo di osservazione e feedback, focalizzato sulla conoscenza per aumentare la capability (technical skills), attraverso la guida di un mentor – direi proprio che non può essere un esempio di approccio sistemico.
Non basta più lavorare sul potenziale delle persone esclusivamente focalizzati sul “cosa e come” => competenze e strumenti.
Bisogna lavorare focalizzati anche su “chi” => prospettive e risorse.
Ciò si traduce nell’aumentare le conoscenze => “fare meglio”, insieme alla consapevolezza=> “fare diversamente”.
E’ necessario passare dal mentoring alla supervisione.
La supervisione favorirà padronanza e scopo, tramite una educazione comunicativo-relazionale per creare rapporti significativi tra sé e i colleghi/responsabili, per saper chiedere supporto, per conoscere e comprendere come soddisfare i propri bisogni di carriera, non compromettendo efficacia ed efficienza personale.
La supervisione inoltre sosterrà l’autonomia tramite un’educazione affettivo-emotiva per favorire un migliore stato emotivo, mentale e fisico della persona favorendo l’affinamento della conoscenza di sé e un’educazione alla fairness (scambiare positività con gli altri), stabilendo chiare aspettative in ogni situazione, offrendo sostegno in modo proattivo, se si individuano segnali di malessere ecc.
Mi piace analizzare i fenomeni partendo dai dati quantitativi, proprio perché se ben analizzati possono supportaci a comprendere i fenomeni bypassando i “filtri” con cui ciascuno osserva la realtà.
Investo in più sondaggi e una ricerca: i dati Gallup, la ricerca dell’Osservatorio dei Politecnico di Milano e il sondaggio di Fior di risorse 2023.
Nel primo sondaggio citato emerge che:
Dalla seconda ricerca estrapolo i seguenti dati, emersi da un campione di 800 lavoratori, rappresentativo sia dei white collar che dei blue collar e di 100 aziende di dimensione medio grand:
Nella terza indagine summenzionata 1/3 della totalità degli intervistati – 2mila lavoratori italiani – vuole cambiare lavoro, per diffuso malcontento, per i seguenti fattori citati in ordine di importanza:
Siamo in bilico tra catastrofe ed evoluzione?
Sicuramente siamo in un momento complesso, quasi incomprensibile, anche rispetto a temi più squisitamente economico-sociali. Se ci pensiamo, per esempio, era da anni che non si parlava più così insistentemente di inflazione. La pensione continua a slittare, apparendo una chimera.
Più volte mi sono interrogata rispetto a chi ha già un piede nel mondo delle organizzazioni e a chi lo vorrà mettere questo piede, soprattutto tenendo conto del fenomeno delle “grandi dimissioni”.
Ora grazie alla lettura del bel libro del filosofo Pietro Del Soldà ho messo in ordine pensieri e riflessioni che voglio condividere.
La vita fuori di sé di Pietro Del Soldà mi ha accompagnata a comprendere come le grandi dimissioni possano definirsi un’avventura e a cogliere più chiaramente il valore etico ma non solo dell’avventura, in questo momento così complesso.
L’avventura per come viene intesa, non è la fuga dalla realtà, il “prendo e mollo tutto, vado via…” .
Il filosofo P. Del Soldà dichiara che: “L’esperienza avventurosa rompe il ritmo ordinario della nostra esistenza ma pur essendo un punto di rottura nello stesso tempo mantiene misteriosamente un rapporto diretto con il centro della nostra vita, quello che siamo veramente”.
L’avventura viene intesa come un’esperienza che ci tira fuori da noi stessi, ossia esperienze che incidono il nostro guscio, fatto delle nostre abitudini/consuetudini. Non si tratta di fare un viaggio “di evasione”, l’esperienza può connotarsi avventura se ci cambia in modo permanente.
L’esperienza avventurosa porta in luce le nostre inclinazioni più profonde.
Per mantenere un ordine dell’esistenza, siamo soliti “azzittire” quel coro polifonico di desideri, idee, bisogni, pensieri, sacrificando parte di noi, in nome di un ordine consuetudinario.
Siamo destinati a muoverci in questo muro di piatte abitudini?
“Per natura siamo spinti a proiettarci oltre il recinto del domestico, oltre il dominio tirannico delle abitudini perché con lo sguardo ci poniamo oltre quello che possiamo toccare, siamo sempre sbilanciati in avanti. – Pietro Del Soldà
Un prete amico, nel sollecitare a non stare troppo nella deriva narcisitica dell’Io mi disse che: ”Noi esistiamo perché il nostro nome viene pronunciato dall’altro”.
Con altre parole il filosofo Pietro Del Soldà sostiene lo stesso concetto quando afferma che: “c’è vita solo fuori di sé. Incontriamo noi stessi solo andando fuori, perché è la via che conduce al contatto profondo di sé”.
Rimanere ancorati alle proprie abitudini, vuol dire perdere il contatto con noi stessi.
Appare evidente che il blocco, inteso come il rimanere saldamente ancorati alle proprie abitudini, è il contrario dell’avventura e pregiudica oltremodo la nostra capacità di scelta.
La scelta infatti nasce da un faticoso lavorio che emerge nel confronto con tutte queste diverse forze, inclinazioni, idee, pensieri che si agitano dentro di noi.
Quando sopprimiamo i dubbi non stiamo scegliendo, stiamo agendo e aggiungerei agendo “male”.
Potrebbe risultare un elogio alle dimissioni?
Voglio semplicemente condividere che se le dimissioni sono una scelta che tiene conto di tutto ciò che siamo stati, di un presente che sacrifica parti di noi stessi, di un futuro dove percepiamo l’impossibilità di essere quello che vorremmo, allora queste dimissioni rappresentano un atto di responsabilità.
“Mettere in questione l’identità personale non è un voltare le spalle alle responsabilità ma è l’unico atto fondativo di un’etica in grado di reggere le sfide del nostro tempo”. Pietro Del Soldà
Le dimissioni potrebbero essere a tutti gli effetti un’avventura che ci conduce fuori dalla nostra confort- zone, portando in luce le nostre inclinazioni più profonde, aprendoci a nuove prospettive magari sopite.
In un’epoca in cui prevale “il corto-termismo – short termism – ovvero progettiamo, programmiamo e agiamo pensando al tornaconto immediato in termini di reputazione ed immagine” – P. Del Soldà -, ebbene le dimissioni appaiono come un gesto fatto per sé, per il senso e significato che se ne ricava, spezzando la catena che subordina il proprio agito al giudizio altrui.
Qual è il futuro per le organizzazioni complesse?
Basta affrontare il tema delle grandi dimissioni individuando una strategia per trattenere i talenti!!
Questo approccio è un modus operandi che affronta le sfide rendendole pericolose invece che trasformarle in opportunità gioiose.
Più cerchi di trattenere le persone, più scappano...
Potrebbe essere possibile, per le persone e le organizzazioni, creare un progetto professionale per ciascuno/a che sia una grande avventura che in qualsiasi momento ci porti a legare il passato con il futuro, trovandone un senso e un significato, rintracciando tutte le parti di sé, senza sacrificarne alcuna?
È possibile e auspicabile, ben sapendo che le nuove modalità di lavoro comportano un approccio che considera il lavoratore come una persona, con un suo insieme di valori e soprattutto di aspettative per il futuro, ma anche un capitale di competenze e di esperienze.
È una catastrofe? Una rivoluzione?
Dipende da come interpretiamo il manager moderno e il suo stile di leadership.
Propongo un modello multidimensionale di leadership che include i meccanismi delle esperienze interiori dei leader così come le loro azioni visibili.
Ritengo che richiamare l’attenzione sulle dinamiche dello scenario interno di una persona possa contribuire allo sviluppo della leadership. Analizzare le forze visibili quali i processi emotivi e mentali dei leader per allargare il campo d’azione e migliorare l’efficacia dello sviluppo della leadership è un obbligo che non può più essere posticipato/rimandato.
Il noto psichiatra Dan Siegel definisce questa consapevolezza “mindsight” (vista della mente), ovvero la capacità di osservare processi mentali di cui non siamo consapevoli, “la capacità di percepire la mente propria e altrui”. È importante notare che la “vista della mente” è diversa dall’auto-riflessione, focalizzata sulla riflessione delle esperienze passate allo scopo di migliorare il comportamento. La “vista della mente”, invece, è una pratica metacognitiva invocata nel momento presente per focalizzare la consapevolezza sui processi mentali.
Siegel sostiene che questa capacità di entrare in sintonia con la nostra mente e con le menti altrui sia alla base dell’intelligenza emotiva e sociale e rappresenti la chiave per l’apprendimento, la crescita personale e la trasformazione.
Si determina quindi un nuovo stile di direzione del manager che comporta la gestione dell’organizzazione secondo un approccio open source e sistemico:
Secondo recenti studi, gli psicologi positivi hanno inoltre enfatizzato l’importanza di ambienti favorevoli sul funzionamento umano, dimostrando che le persone si rivelano più aperte mentalmente e più efficaci nella risoluzione dei problemi quando si trovano in uno stato positivo piuttosto che negativo – Barbara Fredrickson.
Lo psichiatra e psicanalista statunitense Donald Meltzer, in aggiunta, ci insegna che:
Come creare allora degli interventi organizzativi che sviluppino positività?
È opportuno favorire un rapporto con il “paesaggio organizzativo” che implichi il corpo e la sua percezione sensoriale, si carichi di affetti e memoria, così da diventare elemento di identità.
Cosa significa in termini concreti?
È affermare che la complementarità tra management e leadership diventa il cardine per assicurare il successo organizzativo di lungo periodo.
Non viene richiesto al manager semplicemente di allineare tutti i talenti delle risorse umane per raggiungere un obiettivo, bensì di attuare tutte quelle strategie affinché “il paesaggio organizzativo” inteso come contesto possa consentire alle persone di crescere, vivere, prosperare ed essere fruttifere, autonomamente.
Un’esperienza che valga la pena vivere richiede che sia pensata, progettata, disegnata, realizzata e monitorata con grande acume, impegno e partecipazione.
Sono processi articolati che richiedono approcci multidisciplinari e tempi lunghi?
Se queste iniziative sono governate insieme alle persone i tempi si accorciano, l’ho visto con i miei occhi.
Il tema dell’impegno temporale è un alibi della grande organizzazione per non dare vita ad iniziative consistenti.
Desiderate provare per verificare?
#Greatresignation #talentshortage #talentretention
Penso di poter affermare, pur non avendo girato tutto il mondo, che qualunque società si caratterizzi per il seguente stereotipo di genere: aspettarsi che l’uomo manifesti la “mascolinità” la donna la “femminilità”.
Se rifletto sulle conseguenze che questo insieme rigido di credenze condivise e trasmesse socialmente porterebbero alle persone che lavorano in contesti organizzativi globali, immagino che ci perdano tutti, uomini e donne, almeno sui temi: leadership e dell’ingaggio delle persone.
Ogni essere umano ha bisogno di esprimere i lati della propria personalità, senza soffocarne alcuno ed essere riconosciuto “amabile” per com’è.
Come uomo, se vale la norma sociale evidenziata, sarò eccitato ad esprimere lati della mia personalità come la lucida razionalità, la decisione, la competenza, l’assertività, l’essere forte. Potrei essere portato ad escludere, pagando con la non amabilità, l’intuizione, la gentilezza, la premura, la collaborazione, il rispetto, la delicatezza.
Come donna, se vale la norma sociale evidenziata, sarò eccitata ad esprimere lati della mia personalità come l’intuizione, la gentilezza, la premura, la collaborazione, il rispetto, la delicatezza. Potrei essere portata a negare i tratti cosiddetti maschili come la lucida razionalità, la decisione, la competenza, l’assertività, l’essere forte.
Se un professionista uomo possedesse solo tratti maschili potrebbe risultare brutale nell’esercizio della leadership e nell’ingaggio delle persone così come, all’opposto, la professionista donna potrebbe risultare mite. Entrambi metterebbero a repentaglio non solo le rispettive competenze, almeno nel contesto organizzativo, ma non risulterebbero maturi per poter agire ciò di cui loro come persone hanno bisogno: poter esprimere tutti i lati della propria personalità, sentendosi amabili.
Con questo preconcetto il professionista uomo rischia di mettere a repentaglio la spontaneità, cercando di controllare i suoi lati della personalità più femminili. La professionista donna, invece, in un mondo lavorativo non del tutto libero da machismo, potrebbe snaturarsi, negando la sua femminilità per accentuare la sua parte maschile.
Come fate voi manager a pensare che le persone abbiano bisogno di “riferimenti” che non hanno appreso l’abilità di “portare se stessi” in tutte le sfaccettature, ossia ciò che li rende unici?
Forse da questo deriva la vera depressione delle persone che lavorano nelle organizzazioni.
Aumenta la depressione nelle organizzazioni l’assenza di manager capaci di far vedere la propria corona della “femminilità” e della “mascolinità”, basata non sulle norme del ruolo di genere, ma piuttosto sulla capacità di sentire la propria unicità come un oggetto di conoscenza.
Appare evidente che il primo passo per ingaggiare le persone è armonizzare la parte considerata prerogativa maschile e femminile in ciascuno di noi, dando spazio a soggettività e unicità.
Serve forte crescita dei responsabili cosiddetti leader per prendersi seriamente cura della trasformazione della cultura manageriale, generando risvolti interessanti sull’etica del lavoro.
La trasformazione della cultura manageriale è fondamentale. La #consapevolezza di sé contribuirà positivamente alla #responsabilizzazione sui risultati e alla #autonomia in tutti i livelli dell’organizzazione.
In questi anni recenti è molto in voga ”addestrare ” alla cultura della diversità e inclusione.
Secondo voi è possibile lavorare sulla D&I se le persone dell’organizzazione non hanno ancora appreso l’arte della crescita “dell’intera persona”?
A me sembra di imboccare un sentiero con la prospettiva di rimanere stupefatti dal viaggio per una possibilità imminente per poi finire più che altro in una pietraia, senza traccia erbosa.
Sento frequentemente parlare di disfare il concetto di genere per investire in progetti di diversità e inclusione.
Personalmente più che disfare protenderei sul riparare.
Posso ripararmi da una tempesta e posso riparare l’orologio come fa l’orologiaio.
E’ la parola che a che fare con il lavoro anziché con la distruzione che è interessante.
Per aggiustare devo guardare con attenzione il danno (la negazione forzata del maschile o femminile in ciascuno di noi a seconda che si sia donna o uomo) e progettare passo dopo passo la riparazione.
Prendo in prestito delle parole che la meravigliosa Liliana Segre ha detto ai giovani: “Io non perdono e non dimentico ma non odio”.
Non disfare il concetto di genere ma lavorare alla possibilità di riparare significa lavorare alla possibilità di “nascere” di nuovo, con la consapevolezza delle proprie ottime strumentazioni.
E giunti a questo punto….cosa possono fare le organizzazioni per abilitare esperienze di apprendimento che forniscono opportunità di #autoriflessione e di creazione di significato?
Gentile Professore Luigino Bruni
Ho letto con interesse il suo articolo sulla leadership che mi ha spinta a riflettere e farmi alcune domande.
Ho riflettuto su quale fosse stato il suo obiettivo ultimo nel donare il suo pensiero.
Se il suo desiderio è stato quello di creare un po’ di scompiglio per far riflettere i suoi lettori allora la seguo (condivido) e la ringrazio.
Se il suo mandato interiore è stato, invece, quello di mettere un po’ di ordine sul tema, allora dissento per molteplici aspetti, che voglio qui condividere.
Ho letto la sua presentazione sul suo sito e mi permetto di citare uno stralcio:” Le singole discipline, tutte, muoiono quando cercano di passare dalla teoria alla vita. Per risorgere devono iniziare a dialogare con le altre discipline sorelle, perché i verbi che aprono la vita e la spiegano devono essere declinati alla prima persona plurale (noi)”.
Appare evidente, quindi, che il suo personale modo di approcciare le situazioni/opportunità/problemi è quello multidisciplinare, almeno in questo modo si presenta.
Mi sono chiesta allora come mai definisce la leadership e articola la sua riflessione secondo una sola teoria della leadership, ossia quella dell’influenza, quando ne esistono molteplici. Non le appare come una evidente contraddizione?
Con rispetto e umiltà, sono convinta che uno storico come lei che ha l’attitudine a ricercare, studiare, analizzare certamente più approfonditamente di me, è sicuramente a conoscenza che per parlare oggi di leadership non si può prescindere dal considerare i diversi elementi che la costituiscono.
Trovo riduttivo parlare di leadership come: “la leadership è intesa come la capacità di un leader di influenzare una o più persone”, poiché significa ridurre una riflessione ad una sola delle prospettive necessarie con cui riflettere e ragionare sul tema della leadership.
Qui nasce una domanda o una curiosità verso il suo pensiero: Chi ha un pensiero critico su altre professioni, senza essersi abbondantemente informato, lei ritiene possa essere ritenuto “manipolatore”?
Alcuni di coloro, io sicuramente, che oggi si occupano di condividere questi temi con le persone che lavorano nelle organizzazioni complesse lo fanno, da almeno un decennio, invitando a riflettere sul tema del guidare il gruppo in una logica comunitaria. La gerarchia attribuisce sulla carta al leader il potere di influenzare i seguaci ma oggi le organizzazioni più evolute che sono delle vere comunità organizzative attribuiscono pari potere alle altre persone sia di sostenerne le potenzialità del cosiddetto leader sia di invalidarle qualora il leader disattenda le aspettative collettive.
La letteratura scientifica psicologica ci indica che l’essere umano in quanto tale agisce con la pulsione di essere permeabile e/o impermeabile, nello stesso tempo.
Il teologo Paul Tillich definisce queste due pulsioni: potere e amore.
Gli spunti offerti da queste due discipline ci indicano la via. Ciascuno di noi, in quanto essere umano, è sia leader che follower, secondo le azioni che mette in campo – ma nello stesso contesto e con le stesse persone.
Per dare nuova dignità al tema della leadership è veramente necessario iniziare con il mettere seriamente in discussione il sostantivo? È prevalentemente solo questo il problema come appare da ciò che scrive?
Forse il “problema” può sussistere nell’intreccio di una caratteristica innata dell’uomo quando viene ad incrociarsi con l’elemento della gerarchia “spinta” nelle organizzazioni.
Allora sì concordo. Potrebbe, infatti, accadere che l’essere umano rischi di utilizzare le sue due forze – amore e potere- non più in modo generativo ma degenerativo (manipolazione e imposizione, senza crescita dei suoi follower).
Se si persegue un intento di “rottura” per fermarsi e riflettere, le generalizzazioni possono essere utili concorda? Con questa prospettiva il suo articolo mi è risultato interessante. Se, al contrario, ambiscono a spiegare un fenomeno in una logica deduttiva, non trova che possano essere rischiose/pericolose ?
Concludo condividendo che a mio avviso accompagnare le persone a conoscere ed approfondire il proprio potenziale per migliorare la qualità del lavoro e il benessere della comunità organizzativa, comporta considerare almeno 5 aspetti peculiari che sostanziano delle riflessioni serie sul tema della leadership:
Dopo aver condiviso queste considerazioni, le rinnovo il mio grazie per il suo articolo che è “utile”, seppur non sufficientemente esaustivo sul tema della leadership, se non altro perché cita una sola teoria con un solo approccio (P. Hersey e K. Blanchard, 1982).
Stiamo attraversando tempi indefiniti in cui è necessario avere l’umiltà, il coraggio e la responsabilità di proporre riflessioni anche scomode, nell’intento di ridurre e/o eliminare ostacoli verso un bene comune dove il “noi” possa amalgamare quanto più possibile tutte le conoscenze per il benessere comune all’interno dei team.
Articolo originario: https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/contro-il-mito-della-leadership-e-per-un-elogio-della-sequela
@Professore Luigino Bruni
“Crisi d’identità delle organizzazioni” nell’agosto 2022 ho affrontato lo stesso argomento con una riflessione.
Oggi, non è più una mia opinione ma un dato visibile ai più. Per questo insisto con impegno e tenacia a riproporla perché c’è un paradosso che riguarda le generazioni attuali.
In questo momento storico, c’è una fortissima pressione sui risultati. Ho quasi la percezione che questa attenzione sia spasmodica, così snervante da portarci a una possibile mutazione del comportamento umano: vivere quotidianamente sotto stress e, quindi, imparare a non ricadere in fenomeni possibili come il burn out.
Senza abusare del termine resilienza, di cui se ne fa un gran parlare magari solo per manifestare la nostra “modernità”, mi domando: ma sarà mai possibile questa mutazione? E soprattutto: è ciò di cui abbiamo veramente bisogno e, ancor di più, vogliamo?
Tornando alla riflessione sul paradosso, osservo una tendenza diffusa nell’investire in strumenti per creare nuove modalità di lavoro – smartworking, wellbeing digitalizzazione, per citare alcuni – ideati e pensati per garantire qualità del lavoro e benessere delle persone.
La frenesia ossessiva nel presidio dei risultati può andare a braccetto con le nascenti nuove modalità di lavoro?
Molti autori che hanno analizzato e rappresentato i processi di cambiamento organizzativo delineano efficacemente la fase di transizione tra “stadi” di percorsi evolutivi più ampi.
Per accelerare il cambiamento bisogna creare situazioni di “rottura”, dotando l’organizzazione di strumenti raffinati che rispondano a bisogni impliciti dell’organizzazione stessa che, semplicemente nell’immediato in quanto ancora non evoluta, non saprà utilizzare al meglio. (John Kotter, Otto Scharmer, Edgar Schein)
Potremmo pensare che siamo nella direzione utile per definire un nuovo paradigma in cui si situa una fase dell’evoluzione delle organizzazioni e dei modelli di lavoro.
Non voglio porre l’attenzione su quali nuove modalità di lavoro si definiranno, ben venga riscrivere la nuova storia dell’organizzazione!
Quello che è rischioso è farlo attraverso un investimento “truccato”.
Le organizzazioni stanno ridisegnando le nuove modalità di lavoro senza investire nel legame tra le singole persone e l’azienda, causando, per esempio, fenomeni come il quiet quitting.
Il film “the quiet girl” mostra molto bene come una relazione difficile – una delle due parti può sentirsi invisibile agli occhi dell’altra – a poco a poco si distende e fiorisce, grazie alla riduzione della distanza, con un ascolto autentico, interessato, attento alla comprensione di quello che emerge.
E’ una metafora che per analogia descrive altresì in modo efficace come fare a ricostruire le organizzazioni, senza perdersi di vista, guardandosi, nella lentezza e in una dimensione di comunità organizzativa.
Per creare e conciliare efficacemente risultati, qualità del lavoro e benessere delle persone, bisogna accettare che l’investimento vada curato giorno dopo giorno.
E’ necessario che coloro che governano l’azienda vivano questa responsabilità in una dimensione che esula dalla relazione responsabile-collaboratore-proprio team verso una dimensione più amplia di comunità organizzativa.
Il film “the quiet girl” racconta in modo magistrale come per ricomporre un legame ci sia bisogno di comprensibilità, per scrivere una nuova pagina insieme. Grazie alla parola, al dialogo, al confronto, che generano cura e attenzione nel tempo, le relazioni si distendono e ricompongono fino a portare la protagonista a far sbocciare l’autonomia e la volontà di scegliere il proprio futuro.
I coniugi Kinsella (una coppia di mezza età) ospitano Cáit, una giovane fanciulla malconcia perché trascurata, parente lontana, che viene momentaneamente allontanata dalla famiglia di origine. Questi riescono a farla fiorire, con un ascolto costante nel tempo e che cresce com’è nell’ordine naturale delle cose, fino ad arrivare a conoscere e comprendere le reciproche necessità.
I coniugi Kinsella sono un invito per i C-level: un insegnamento all’umiltà, al coraggio di prendersi la responsabilità di rallentare, fermarsi, osservare, ascoltare per conoscere veramente le necessità delle persone e poi decidere insieme.
Ripartire da zero nel dialogo con le persone, con il talento “della velocità” insieme al talento “della lentezza” è la sfida di “adattamento” dei C-level per governare davvero questa transizione, verso nuove modalità di lavoro.
Perché è una sfida di “adattamento” per i C-level?
Negli anni ho lavorato con un numero elevato di persone che ricoprono ruoli apicali e ho colto una caratteristica che li accomuna: un rapporto virtuoso e accelerato con il tempo, rispetto alla dimensione del pensare, sentire e agire. Questa qualità ha permesso loro di poter governare le organizzazioni efficacemente, con agio personale e professionale.
Nei decenni passati è stato il loro talento principale per poter governare armoniosamente le organizzazioni.
Questo talento fioriva in ambienti più stabili degli odierni, meno caoticamente veloci, non in continuo cambiamento dinamico.
Agire in tempi moderni questo talento richiede una grande sfida di adattamento, proprio perché lo scenario circostante non è stabile ma in costante divenire.
Accelerare, quando il mondo intorno a noi continua a procedere con una velocità e una competizione più che sproporzionata, potrebbe non essere più il solo talento prioritario a cui ricorrere.
Questo talento da solo diventa degenerativo.
Solo quando possiamo lavorare con il “talento della velocità” e il “talento della lentezza” possiamo risolvere problemi difficili.
È necessario sviluppare questi due lati di noi stessi.
Non si tratta di trovare un equilibrio ma di lavorare su ciascuno di essi, lasciarli crescere insieme.
La lentezza, praticata dal rallentare diverrà il muscolo da sviluppare per i C-level.
“Rallentare” non vuol significare semplicemente introdurre delle pause nel proprio agire.
Quella sensazione di impazienza, noia, inutilità nella relazione con gli altri ritenuti non rapidi, fulminei, veloci, frequentemente attanaglia i C-level ma può trasformarsi da nemica in amica se la si riconosce, accoglie e comprende, come un nuovo comportamento.
La definirei come un’attitudine mentale da sviluppare in relazione al tempo, nella relazione con gli altri.
E’ proprio nei momenti in cui i C-level si compiacciono della loro abilità di essere veloci in tutto – nel pensare, nel decidere, nell’agire – che rischiamo di utilizzare il loro talento in modo degenerativo.
L’azione veloce non è sufficiente, poiché è possibile perdere la focalizzazione su cosa osservare e sapere per motivarsi e ispirarsi ma ancora di più per motivare e ispirare le persone all’autonomia realizzativa ed alla responsabilizzazione.
Ricorro ancora ad una sceneggiatura offertami da un altro splendido film: “Gli spiriti dell’isola”.
Su un’isola remota al largo della costa irlandese, Pádraic è sconvolto quando il suo compagno Colm interrompe improvvisamente la loro amicizia di una vita. Pádraic si propone di recuperare il rapporto danneggiato con ogni mezzo necessario.
Questo film ci accompagna a cogliere il viaggio di sola andata verso l’oblio. Quando i protagonisti perdono il contatto con il punto di vista dell’altro, quando si sentono così nel giusto nell’osservazione del reale, dimenticando la propria soggettività che inevitabilmente li influenza, quando assecondano solo la loro velocità di proporre soluzioni per risolvere problemi, i protagonisti del film come i C-level costruiscono muri invalicabili che poi rischiano di sfociare, come infatti accade, in un conflitto distruttivo e/o un allontanamento fisico o un distacco mentale delle persone dell’organizzazione, senza rimedio/ritorno.
Ripartiamo da zero nell’osservare la necessità organizzativa contemporanea per riscrivere nuove modalità di lavoro invece di fare un’operazione “truccata”, con la moltiplicazione di disordinate iniziative aziendali rivolte al benessere e alla qualità del lavoro.
Durante le vacanze natalizie mi sono concessa una “scorpacciata” di film al cinema.
Ne ho visti due bellissimi, di cui voglio parlarvi, guardandoli rispetto alla prospettiva di osservazione dei comportamenti umani.
I film ci sollecitano e ci allenano a ricorrere al mondo fiabesco. Per questo credo che il cinema faccia molto bene, ancor di più in questi tempi incerti.
Perché la fiaba è utile per le persone adulte?
La fiaba è vicina al sogno, un sogno lucido, che possiamo guidare, interrompere, quando vogliamo ma da cui possiamo accelerare processi di apprendimento dati in prima istanza dal gioco e dall’arte proprio perché inducono altri stati di coscienza con relativi inshight (Alfonso Maurizio Iacono).
Le otto montagne: vivere nella libertà e nel mistero.
È un film tratto dall’omonimo romanzo di Paolo Cognetti del 2017, che racconta la storia di una profonda amicizia nata ai piedi del Monte Rosa tra Pietro, ragazzino di città, e Bruno, suo coetaneo che vive a Grana sui monti della Valle D’Aosta.
E’ un film che si snoda su molteplici livelli.
Ci accompagna a comprendere come il paesaggio vada oltre lo sguardo e la contemplazione. La montagna, in questo film, si carica, infatti, di affetti e memoria e diventa elemento dell’identità dei due protagonisti.
Il tema centrale, che mi ha rapita durante la visione, per come viene raccontato, è quello che vivere vuol dire incontrare se stessi e che c’è qualche cosa di malinconico nel pensiero di non farlo – “Chi impara di più su se stesso? Chi scala la montagna più alta, il monte Sumeru, oppure chi gira il mondo per scalare le otto montagne, intorno ad esso?” – antica leggenda nepalese.
Pietro e Bruno, amici d’infanzia e ora uomini, hanno un modo differente di trovare come diventare loro stessi.
Questo splendido film riprende il pensiero di Jean Bertrand Pontalis: “Per avere qualche speranza di essere noi stessi, dobbiamo avere molti luoghi dentro di noi”. La nostra storia e la nostra psiche sono anche una geografia, ossia siamo inseparabili dai nostri luoghi, per amore o per rancore e, tendenzialmente, il nostro luogo non è mai uno solo.
Ciascuno di noi crea con il paesaggio un rapporto personale e intimo.
Per Bruno capire come vivere e non lasciarsi vivere significa collocare questa ricerca di se stesso nella mappa conosciuta del reale, la montagna dove è nato. Per questo protagonista trovare la propria “isola interiore” in cui si è padroni di se stessi, potrebbe dover comportare il vivere una via del mistero assoluto e della libertà assoluta, costi quel che costi – “So vivere da solo, non è poca cosa…….questa montagna non mi ha mai fatto male…”.
Per Pietro capire come vivere e non lasciarsi vivere comporta intraprendere un cammino di mutazione, ossia non collocare questa ricerca di sé nella mappa conosciuta del reale, la montagna dove ha vissuto momenti determinanti della sua crescita, ma intuire in cosa, questa ricerca di sé avrebbe modificato la mappa, l’esatto punto in cui avrebbe trovato l’appoggio per ruotare su questa mappa per farla diventare paesaggio nuovo e inimitabile.
Il film ci parla di come imprimere dei cambiamenti nelle proprie vite, perfino quando si tratta letteralmente di vita o di morte, sia esasperatamente sfuggente, se non c’è desiderio e motivazione. Racconta di come il desiderio e la motivazione non siano sufficienti, senza aver compreso quanto le nostre convinzioni individuali ci possano rendere resistenti al cambiamento. Il punto non è se le nostre convinzioni sono o non sono vere, ma finché pensiamo lo siano, ne impediamo la messa in discussione. È necessario acquisire un modo di apprendere più complesso, aumentare il proprio livello di coscienza, che permetta di guardare al cambiamento non obbligatoriamente attraverso il proprio schema.
Le 8 montagne esplora, così come “la timidezza delle chiome”, la relazione parentale e amicale, l’importanza e il senso di pienezza, che permettono di liberare le nuove potenzialità di ciascuno, grazie al rapporto con l’altro.
La timidezza delle chiome: nessuno è normale
E’ un racconto documentaristico sulla crescita di due gemelli monozigoti, Josh e Benji. Una sceneggiatura vera, concreta, reale, senza fronzoli e per questo estremamente poetica, almeno per me.
Sollecita molte riflessioni interessanti, dolci e mature. E’ un tripudio a chi vuole vivere in modo pieno.
Il film le 8 montagne si connota con le stesse caratteristiche, sebbene con un canovaccio diverso.
Entrambi descrivono l’abilità di prendere possesso della propria vita, qualunque sia, amandosi e costruendone il proprio significato: mi interessa ciò che riesco a fare, non importa ciò che non riesco a fare, personalmente sono abbastanza.
Racconta di attitudini e comportamenti che rischiamo di dare per scontati, ma che sono tanto vitali per il nostro benessere quanto per i nostri bisogni universali: appartenere, autorealizzarsi, crescere.
Parla della semplicità di essere se stessi e di come questa dotazione naturale che ci viene attribuita alla nascita renda la vita ricca di senso, profondità e bellezza. Un gran bel vivere!
Racconta di un cammino per conoscere il proprio sé con autenticità e spontaneità, per esprimersi, andando all’essenza nella comunicazione con l’altro, con una grazia inusuale.
Narra di un’idea della relazione sana. Non esiste una identità a se stante. Nel rapporto con l’altro definisco la mia identità. Ognuno di noi è una nomade nella sua identità che va custodita. Dall’altra noi siamo parte di un tutto, nomadi che hanno la capacità di riflettere in sé le altre nomadi, formando un tutto di identità ricche, complesse e comunicanti (G. Wilhelm von Leibniz).
Josh e Benji lo sanno bene. Non possono accettare di stare immobili a osservare il mondo, senza interagire, a causa della loro disabilità cognitiva, anzi corrono, gli vanno incontro, nell’urgenza del loro bisogno di crescita. Non lo respingono questo mondo, semplicemente si oppongono in modo costruttivo. Creano un rapporto con il mondo con cui si confrontano nella mediazione. Non vuol dire che non si oppongano, come frequentemente fanno i giovani per crescere. Hanno però una conoscenza ben radicata in loro: il rapporto con l’altro è così necessario che sono disposti ad affrontare i pericoli di questa relazione, in quanto unica strada per sviluppare se stessi.
Vivono una paura costruttiva. Non viene agita una paura-fuga, vedendo un mondo pieno di minacce. I due protagonisti si sforzano di comprendere le ragioni delle cose, il punto di vista dell’altro, con una dedizione, un ascolto e un’empatia da urlo. Vanno nel riconoscimento dell’altro, nel rapporto dialogico, ben intuendo che questo gesto rafforzerà la propria identità.
Il documentario fa cogliere come la dinamica del conflitto sia necessaria per andare avanti e progredire. Il conflitto, la possibile tensione che ne deriva, ci permette di passare da una identità insignificante a una identità ricca di singolarità, grazie al confronto con l’altro.
Loro sanno che non è essenziale arrivare ad una soluzione con parole che vadano bene a tutti. Sanno molto bene che il dialogo risolve i conflitti ma non necessariamente le tensioni. Non cercano di allontanare queste tensioni. Le vivono come il presupposto utile per ritornare poi a condividere le proprie prospettive a livello umano.
Questo canovaccio ci racconta dell’abilità dei due gemelli di ricorrere al mondo fiabesco.
I due fratelli investono nella loro fiaba personale di essere romani, non come antidoto alla sofferenza di un mondo talvolta ostile, ma come risorsa personale per riavvicinarsi al mondo con energia ed entusiasmo. Affrontano il dolore, lo sentono, lo vivono, anche grazie all’abilità di entrare ed uscire da questo dolore con il loro sogno lucido che interrompono quando necessario.
Ora viviamo un’ingiunzione al godimento: prendere immediatamente, per appagare i propri appetiti. È più una simulazione della vita, che non vuole fare i conti con la preoccupazione, il disagio e il dolore. Ma non c’è speranza senza preoccupazione!!!
Josh e Benji imparano a vivere al presente, lasciandosi guidare dall’intuizione per “usare ciò che loro stessi sono”. Entrambi si imbarcano nell’avventura militare, l’uno convinto di trarne un senso e significato per la propria vita. L’altro aperto alla sperimentazione. Non vogliono separarsi, sarebbe troppo doloroso. Eppure quando capiscono che la strada dell’uno non può essere anche la strada dell’altro gemello, hanno il coraggio di interrompere il progetto comune, costi quel che costi, pur di vivere una vita che li rispecchi nei propri bisogni più profondi.
Agiscono la miglior definizione di coraggio a cui potrei pensare: agire e andare avanti anche quando si ha paura.
Questi docu – film raffigurano la miglior descrizione concreta di una vita vissuta intensamente, con il pensiero del cuore, a cui potrei pensare.
E’ imperativo: dobbiamo apprendere nuove modalità di pensiero per affrontare questo periodo caratterizzato da una situazione indefinita quasi caotica, sicuramente stressante per molti di noi.
Come fare, quindi, per acquisire questa capacità e come possiamo fare per sperimentarci in questa direzione? Quale attitudine mentale agevolerà lo sviluppo quotidiano di questa abilità?
Partirò da una strategia che riduce e non aggiunge, lasciando questa seconda in divenire. Un percorso che focalizza l’attenzione sulla necessità di ridurre l’impatto su di noi delle convinzioni che posso ancora definire come tabù sociale, anche se questo significa complicarsi la vita toccando temi che non dovremmo toccare.
La parola tabù significa una convenienza sociale una sorta di interdizione, divieto sacrale di fare certe cose, di pronunciare certe parole, per motivi religiosi o di più generica superstizione o “millantata moralità”.
Parliamo di “nuova strategia” perché non ancora usuale, poco praticata se non dimenticata…
Questa strategia spera anche nell’effetto farfalla (in sistemi dinamici non lineari, infinitesime variazioni nelle condizioni iniziali producono variazioni grandi e crescenti nel comportamento successivo dei suddetti sistemi).
Seguirò, perciò, una modalità di esplorazione empirica che parte dall’osservazione dei fenomeni, dall’individuazione delle eventuali ricorrenze degli schemi – pattern -, fino ad arrivare a definire le soluzioni emergenti.
Tutti noi continuiamo a sostenere che “sbagliare e fallire sono passaggi indispensabili per crescere e cambiare”. In pratica tutti preferiamo crescere attraverso esperienze di successo. Da qui il passo è veramente breve al non essere propensi ad accettare nuove sperimentazioni che potrebbero portare ad eventuali fallimenti– unconscious bias: avversione alla perdita.
Possiamo affermare che per cambiare punto di vista è necessario trasformare il nostro approccio al fallimento? E cosa significa concretamente cambiare il nostro approccio al fallimento?
Sintetizzo cosa emerge da studi scientifici al riguardo – neurobiologia dell’errore – con una affermazione: “Il nostro cervello percepisce gli sbagli e cerca di trarre successo dai nostri fallimenti”.
Alcune scoperte del 1990 mostrano come il nostro cervello abbia delle reti specifiche per accogliere l’errore, elaborarlo e attivare una presa di coscienza.
Quando il cervello si accorge di sbagliare emette un’onda negativa – ERN, Error Related Negativity – che fa emergere la discordanza tra risultato e previsione. Il nostro cervello identifica fin da subito l’errore.
Ci accorgiamo dell’errore tuttavia non mentre lo si realizza piuttosto ad azione conclusa. Per questo motivo il cervello reagisce e crea un’altra risposta diversa, l’onda positiva – PE, Error Positivity – il meccanismo che permette di rivalutare in modo cosciente quanto successo e adattare strategie e comportamenti.
E’ importante considerare che il nostro cervello pesa circa il 2% di massa corporea ma per funzionare consuma circa il 20% di glucosio. In questa direzione sono da considerare alcuni studi condotti da Daniel Kahneman che parlano di “pensieri lenti e veloci”.
L’essere umano è provvisto di due modalità di pensiero:
Diventa evidente come ricostruire una realtà coerente con quanto si è creduto fino a quel giorno richiede meno energie, ci permette di mantenere una certa fluidità cognitiva e di rispondere rapidamente alle sfide che incontriamo (via veloce e non dispendiosa = sistema 1) piuttosto che rimettersi in gioco ad ogni istante con nuove valutazioni (via lenta e faticosa = sistema2).
In sintesi:
Se sapessimo come funziona il nostro cervello, la nostra percezione dell’errore e/o fallimento potrebbe modificarsi?
Sapere che siamo attrezzati per identificare l’errore e che questa identificazione ci permette un secondo ed ulteriore passaggio, ossia apprendere perché si è verificato un errore cambierebbe la nostra percezione del fallimento?
A livello logico razionale è indubbio che emergerebbe una diversa percezione del significato del fallimento, ovvero una strada che è possibile percorrere, perché dotati di strumenti adeguati (il nostro cervello), per affrontare questo viaggio.
Dobbiamo percepire il fallimento come un’esperienza che ci consente di fermarci, riflettere su quanto atteso e accaduto, correlare questa discrepanza con quello che siamo oggi e vogliamo diventare, ossia l’occasione di armonizzare il nostro stile decisionale, i risultati conseguiti, la motivazione e il nostro scopo nel mondo
Accettando come funziona il nostro cervello e questo “nuovo” punto di vista sarà possibile non ridurre le occasioni di apprendimento. Emerge un sistema naturale di apprendimento, una preziosa pedagogia dell’inciampo: si chiama o si dovrebbe chiamare anche laboratorio di apprendimento. Sarà possibile così vedere il nostro e altrui fallimento con meno durezza, come un momento per ripartire con maggiori energie e una direzione ancora più chiara.
Sono molteplici le parole che stanno arricchendo il nostro vocabolario e manifestano che stiamo avviandoci ad un periodo a dir poco “interessante”.
Great Resignation – grandi dimissioni
Quiet quitting jobs – fare il minimo indispensabile, per mettere la qualità della propria vita prima di qualsiasi cosa
Downshifting – semplicità consapevole
Sono ammattita? Credo di no…. Non nego il disagio psicologico derivante sia da due anni di pandemia sia dalle recenti tensioni internazionali e locali (caro bollette per citarne una). Questi fenomeni esistono e hanno avuto e stanno avendo un impatto nel mondo del lavoro.
“La mia vita non mi somiglia”
“Ho sempre l’ansia”
“Mi sembra di non riuscire mai a staccare davvero la testa dal lavoro, ho troppe cose da fare”
“Vorrei avere più tempo per la mia vita privata”
“Mi fa “schifo” il mio lavoro e l’azienda in cui lavoro”
Per anni abbiamo parlato usando l’acronimo VUCA (Volatile, Incerto, Complesso e Ambiguo) e adesso ci troviamo ad averlo sostituito con BANI (Fragile, Ansioso, Non lineare, Incomprensibile) – Jamais Cascio, Istitute for the Future.
Tutto ci sta costringendo ad uscire da quella opacità attraverso la quale filtravamo i nostri desideri, pulsioni, passioni. Questo perché, frequentemente, tendiamo a negare l’esistente riducendolo ad un fastidioso incidente, nell’attesa della felicità. Ed ecco il pericolo!
Se non facciamo attenzione, la felicità diventa una grande fregatura della nostra mente. Siamo infatti travolti dall’angoscia, ogni volta che riscontriamo in noi passioni, pulsioni che risultano contradditorie, perché assediano i ruoli che ci sforziamo di assumere in nome della felicità.
Allora a cosa serve la felicità?
Secondo Michel Foucault “l’individuo tende a identificarsi con un ruolo, ricerca il senso della propria vita in un’”immagine identificatoria della felicità”. A suo avviso, per questa via siamo disposti a incasellare, ingabbiare le nostre vite. Rimuoviamo i conflitti interiori nell’illusione, così facendo, di poter padroneggiare in noi stessi le nostre contraddizioni.
Le parole che stanno emergendo ci dicono che siamo nuovamente pronti a “lavorare su di sè” – altra parola impropriamente “abusata” – dando spessore alla nostra stessa vita, facendoci carico dei conflitti che tessono la trama dell’epoca che stiamo vivendo.
Questa nuova consapevolezza ci permetterà di non rischiare di azzerare la dimensione di creatività che appartiene essenzialmente al nostro conflitto interiore. Farci carico dei conflitti interiori innescherà inoltre un’impennata della sensibilità verso noi stessi e percorrendo questa via verrà naturale esprimerla anche verso gli altri.
La creatività è alla base della trasformazione profonda dei nostri modi di vita, di relazione con gli altri e con l’ambiente, dei nostri “valori”, in breve alimenta la nostra abilità di crescere e cambiare.
Abbiamo l’occasione di fermarci e di avere coraggio nel pensare che qualche cosa di importante possiamo decidere di costruire, per cambiare il Futuro, soprattutto per i giovani!
Possiamo accogliere che i modi di pensare che abbiamo sperimentato fino ad ora non bastino più. Ancora di più possiamo accettare e/o valorizzare il non sapere, muovendoci come principianti. Disimparare per trovare nuove risposte.
“Visto che ciò che fai dice molto di ciò che sei….” mi rivolgo alle aziende alle quali consiglio questa nuova strada da percorrere:
– Fermatevi
– Disimparate
– Individuate nuovi modi di pensare
– Date risposte nuove alle persone con cui lavorate
Quest’ultimo gesto parlerà di voi !….e verrete ascoltati perché le vecchie modalità hanno stufato.