#crisididentitàdelleorganizzazioni Archivi | Roberta Martini

E’ imperativo: dobbiamo apprendere nuove modalità di pensiero per affrontare questo periodo caratterizzato da una situazione indefinita quasi caotica, sicuramente stressante per molti di noi.

Come fare, quindi, per acquisire questa capacità e come possiamo fare per sperimentarci in questa direzione? Quale attitudine mentale agevolerà lo sviluppo quotidiano di questa abilità?

Partirò da una strategia che riduce e non aggiunge, lasciando questa seconda in divenire. Un percorso che focalizza l’attenzione sulla necessità di ridurre l’impatto su di noi delle convinzioni che posso ancora definire come tabù sociale, anche se questo significa complicarsi la vita toccando temi che non dovremmo toccare.

La parola tabù significa una convenienza sociale una sorta di interdizione, divieto sacrale di fare certe cose, di pronunciare certe parole, per motivi religiosi o di più generica superstizione o “millantata moralità”.

Parliamo di “nuova strategia” perché non ancora usuale, poco praticata se non dimenticata…

Questa strategia spera anche nell’effetto farfalla (in sistemi dinamici non lineari, infinitesime variazioni nelle condizioni iniziali producono variazioni grandi e crescenti nel comportamento successivo dei suddetti sistemi).

Seguirò, perciò, una modalità di esplorazione empirica che parte dall’osservazione dei fenomeni, dall’individuazione delle eventuali ricorrenze degli schemi – pattern -, fino ad arrivare a definire le soluzioni emergenti.

Tutti noi continuiamo a sostenere che “sbagliare e fallire sono passaggi indispensabili per crescere e cambiare”. In pratica tutti preferiamo crescere attraverso esperienze di successo. Da qui il passo è veramente breve al non essere propensi ad accettare nuove sperimentazioni che potrebbero portare ad eventuali fallimenti– unconscious bias: avversione alla perdita.

Possiamo affermare che per cambiare punto di vista è necessario trasformare il nostro approccio al fallimento? E cosa significa concretamente cambiare il nostro approccio al fallimento?

Sintetizzo cosa emerge da studi scientifici al riguardo – neurobiologia dell’errore – con una affermazione: “Il nostro cervello percepisce gli sbagli e cerca di trarre successo dai nostri fallimenti”.

Alcune scoperte del 1990 mostrano come il nostro cervello abbia delle reti specifiche per accogliere l’errore, elaborarlo e attivare una presa di coscienza.

Quando il cervello si accorge di sbagliare emette un’onda negativa – ERN, Error Related Negativity – che fa emergere la discordanza tra risultato e previsione. Il nostro cervello identifica fin da subito l’errore.

Ci accorgiamo dell’errore tuttavia non mentre lo si realizza piuttosto ad azione conclusa. Per questo motivo il cervello reagisce e crea un’altra risposta diversa, l’onda positiva – PE, Error Positivity – il meccanismo che permette di rivalutare in modo cosciente quanto successo e adattare strategie e comportamenti.

E’ importante considerare che il nostro cervello pesa circa il 2% di massa corporea ma per funzionare consuma circa il 20% di glucosio. In questa direzione sono da considerare alcuni studi condotti da Daniel Kahneman che parlano di “pensieri lenti e veloci”.

L’essere umano è provvisto di due modalità di pensiero:

  1. Sistema 1, un sistema soprannominato intuitivo e veloce che opera in fretta e automaticamente, con poco o nessuno sforzo e nessun sistema di controllo volontario;
  2. Sistema 2, un sistema soprannominato analitico e lento, che indirizza l’attenzione verso attività mentali complesse, che richiedono concentrazione e sforzo.

Diventa evidente come ricostruire una realtà coerente con quanto si è creduto fino a quel giorno richiede meno energie, ci permette di mantenere una certa fluidità cognitiva e di rispondere rapidamente alle sfide che incontriamo (via veloce e non dispendiosa = sistema 1) piuttosto che rimettersi in gioco ad ogni istante con nuove valutazioni (via lenta e faticosa = sistema2).

In sintesi:

  • la neurobiologia ha attestato che il nostro cervello è abilitato a identificare l’errore. Proprio per questo allarghiamo i saperi attraverso l’apprendimento dalle esperienze di errore;
  • abbiamo due modalità di pensiero: una che ci permette di vivere senza mettere in dubbio ogni cosa, ma per converso è infarcita di convinzioni errate proprio perché viaggia prevalentemente sull’intuizione; l’altra, quella lenta, è abilitata per identificare gli errori e a confrontare lo sbaglio con le nostre previsioni alfine di imparare dalle esperienze.

Se sapessimo come funziona il nostro cervello, la nostra percezione dell’errore e/o fallimento potrebbe modificarsi?

Sapere che siamo attrezzati per identificare l’errore e che questa identificazione ci permette un secondo ed ulteriore passaggio, ossia apprendere perché si è verificato un errore cambierebbe la nostra percezione del fallimento?

A livello logico razionale è indubbio che emergerebbe una diversa percezione del significato del fallimento, ovvero una strada che è possibile percorrere, perché dotati di strumenti adeguati (il nostro cervello), per affrontare questo viaggio.

Dobbiamo percepire il fallimento come un’esperienza che ci consente di fermarci, riflettere su quanto atteso e accaduto, correlare questa discrepanza con quello che siamo oggi e vogliamo diventare, ossia l’occasione di armonizzare il nostro stile decisionale, i risultati conseguiti, la motivazione e il nostro scopo nel mondo

Accettando come funziona il nostro cervello e questo “nuovo” punto di vista sarà possibile non ridurre le occasioni di apprendimento. Emerge un sistema naturale di apprendimento, una preziosa pedagogia dell’inciampo: si chiama o si dovrebbe chiamare anche laboratorio di apprendimento. Sarà possibile così vedere il nostro e altrui fallimento con meno durezza, come un momento per ripartire con maggiori energie e una direzione ancora più chiara.

Sono molteplici le parole che stanno arricchendo il nostro vocabolario e manifestano che stiamo avviandoci ad un periodo a dir poco “interessante”.
Great Resignation – grandi dimissioni
Quiet quitting jobs – fare il minimo indispensabile, per mettere la qualità della propria vita prima di qualsiasi cosa
Downshifting – semplicità consapevole
Sono ammattita? Credo di no…. Non nego il disagio psicologico derivante sia da due anni di pandemia sia dalle recenti tensioni internazionali e locali (caro bollette per citarne una). Questi fenomeni esistono e hanno avuto e stanno avendo un impatto nel mondo del lavoro.
“La mia vita non mi somiglia”
“Ho sempre l’ansia”
“Mi sembra di non riuscire mai a staccare davvero la testa dal lavoro, ho troppe cose da fare”
“Vorrei avere più tempo per la mia vita privata”
“Mi fa “schifo” il mio lavoro e l’azienda in cui lavoro”
Per anni abbiamo parlato usando l’acronimo VUCA (Volatile, Incerto, Complesso e Ambiguo) e adesso ci troviamo ad averlo sostituito con BANI (Fragile, Ansioso, Non lineare, Incomprensibile) – Jamais Cascio, Istitute for the Future.
Tutto ci sta costringendo ad uscire da quella opacità attraverso la quale filtravamo i nostri desideri, pulsioni, passioni. Questo perché, frequentemente, tendiamo a negare l’esistente riducendolo ad un fastidioso incidente, nell’attesa della felicità. Ed ecco il pericolo!
Se non facciamo attenzione, la felicità diventa una grande fregatura della nostra mente. Siamo infatti travolti dall’angoscia, ogni volta che riscontriamo in noi passioni, pulsioni che risultano contradditorie, perché assediano i ruoli che ci sforziamo di assumere in nome della felicità.
Allora a cosa serve la felicità?
Secondo Michel Foucault “l’individuo tende a identificarsi con un ruolo, ricerca il senso della propria vita in un’”immagine identificatoria della felicità”. A suo avviso, per questa via siamo disposti a incasellare, ingabbiare le nostre vite. Rimuoviamo i conflitti interiori nell’illusione, così facendo, di poter padroneggiare in noi stessi le nostre contraddizioni.
Le parole che stanno emergendo ci dicono che siamo nuovamente pronti a “lavorare su di sè” – altra parola impropriamente “abusata” – dando spessore alla nostra stessa vita, facendoci carico dei conflitti che tessono la trama dell’epoca che stiamo vivendo.
Questa nuova consapevolezza ci permetterà di non rischiare di azzerare la dimensione di creatività che appartiene essenzialmente al nostro conflitto interiore. Farci carico dei conflitti interiori innescherà inoltre un’impennata della sensibilità verso noi stessi e percorrendo questa via verrà naturale esprimerla anche verso gli altri.
La creatività è alla base della trasformazione profonda dei nostri modi di vita, di relazione con gli altri e con l’ambiente, dei nostri “valori”, in breve alimenta la nostra abilità di crescere e cambiare.
Abbiamo l’occasione di fermarci e di avere coraggio nel pensare che qualche cosa di importante possiamo decidere di costruire, per cambiare il Futuro, soprattutto per i giovani!
Possiamo accogliere che i modi di pensare che abbiamo sperimentato fino ad ora non bastino più. Ancora di più possiamo accettare e/o valorizzare il non sapere, muovendoci come principianti. Disimparare per trovare nuove risposte.
“Visto che ciò che fai dice molto di ciò che sei….” mi rivolgo alle aziende alle quali consiglio questa nuova strada da percorrere:
– Fermatevi
– Disimparate
– Individuate nuovi modi di pensare
– Date risposte nuove alle persone con cui lavorate
Quest’ultimo gesto parlerà di voi !….e verrete ascoltati perché le vecchie modalità hanno stufato.

Voglio dirvi che il concetto della leadership gentile è sostenibile nelle organizzazioni complesse.

Trovo stucchevole e poco proficuo come questo è stato divulgato fino ad ora.

Qual è lo scopo di accompagnare i manager da una leadership agita con un approccio competitivo ad una leadership nuova con un approccio sistemico di co-creazione verso una leadership gentile?

Proviamo quindi ad approfondire e comprendere insieme.

Che legame sussiste tra gratitudine e gentilezza?

Questo quesito mi ricorda un vecchio paradosso: “E’ nato prima l’uovo o la gallina?”

Sono questioni complesse che non possiamo sdoganare in un ragionamento lineare.

Sono qualità innate, hanno a che fare con le nostre relazioni e ci aiutano a costruire relazioni positive che sono essenziali per la sopravvivenza e il nostro benessere nella vita.

Ci spingono a concentrarci sugli aspetti positivi della vita piuttosto che su quelli negativi.

Ciò che è negativo impatta in noi maggiormente rispetto a quello che è positivo.

Il pensiero negativo, la psicologia lo dimostra, necessita di molto tempo per essere elaborato e per questo si appiccica addosso, si infiltra dentro di noi.

I pensieri positivi sono momentanei, fugaci, ossia tendono a svanire velocemente. Se vogliamo vivere con maggior benessere, dobbiamo lavorare duramente per cercare di “trattenerli” – accogliere il positivo e viverlo nell’istante in cui si manifesta.

In questi anni la ricerca sta approfondendo gli studi scientifici in questa direzione – Barbara Erickson, psicologia positiva, ricerca sulle emozioni positive – per svelare gli effetti diversi sulle diverse persone della gratitudine, partendo dal supposto dimostrato scientificamente che quando aumenta la gratitudine aumenta il livello di benessere.

E’ così facile lavorare sulla gratitudine?

E’ stato dimostrato che servono due settimane di diario in cui si segna la gratitudine per migliorare il benessere.

Si sviluppa un maggiore senso di connessione con gli altri – “vi ricordo che la gratitudine ha a che fare con la relazione – si riduce l’invidia, la gelosia situazionale (paragonarsi con chi sta meglio di noi). Concentrandoci su ciò che abbiamo, in termini di cosa stiamo vivendo, possiamo ridurre questi sentimenti di invidia” – Suzy Green, The Positive Istitute.

L’esperimento è stato condotto su due gruppi. Ad uno è stato chiesto di tenere il diario giornaliero, l’altro una volta alla settimana. Alla fine dello studio, tutti avevano migliorato il benessere ma soprattutto quello che lo teneva una volta alla settimana.

Gli interventi sulla gratitudine migliorano il benessere. Lavorare sulla gratitudine tutti i giorni però rischia di far percepire questo come un’altra cosa da fare, riducendola a semplice compito da svolgere.

Lavorare realmente sulla gratitudine personale comporta fermarsi e riconoscere quello che sta succedendo. E’ un fatto molto più profondo.

Lo studio ha portato a certificare che se si tiene un diario della gratitudine il 25% delle persone diventa più felice, la nostra pressione sistolica viene ridotta del 10% e anche il nostro aumento di grassi viene ridotto del 20%.

Ci sono solo effetti positivi nel praticare gratitudine?

A volte quando le persone iniziano a coinvolgersi in interventi di gratitudine, soprattutto se si è ricevuto qualche cosa, si sperimenta un senso di essere indebitati, si ha bisogno di ripagare quello che si è ricevuto, fino ad arrivare a provare un sentimento di vergogna, perché si sente di non meritare ciò che si è ricevuto.

Seppur l’effetto che emerge con evidente certezza è che quando aumenta la gratitudine aumenta il livello di benessere, la psicologia è ancora alle prese nel comprenderne scientificamente gli effetti diversi sulle diverse persone.

Tornando alla gentilezza, potremmo dire che è strettamente connessa in modo circolare con la gratitudine e se volessimo spingerci oltre, potremmo dire che è l’atto con cui comunico la mia gratitudine alla persona alla situazione, all’esperienza vissuta ma anche a se stessi, a quello che si è ottenuto e/o ricevuto dal mondo.

In questa prospettiva la gentilezza assume un senso ed uno scopo profondo verso un cambiamento reale, fuori dalle mode, dove si sgretola quell’assioma che dice: “gentilezza = debolezza e arroganza= potenza”.

Coinvolgere i manager in viaggi di cambiamento verso una leadership gentile per questo ha significato ed utilità concreta.

Con questa attitudine nuova di gratitudine e gentilezza i manager saranno dei “buoni” manager soprattutto perché:

  • Avranno fortemente allenato e quindi consolidato la loro capacità di ascolto.

L’incapacità di riconoscere i nuovi “desideri” delle persone e il mancato feedback da parte delle aziende non è forse uno dei motivi per cui le aziende stanno pagando a caro prezzo la “great resignation”?

Un manager pieno di gratitudine e gentilezza non rischia quello scollamento tutt’al più lo riduce.

  • Avranno preso le distanze dal concetto di loro come figura che possiede “in proprietà” il team.

Non è forse questo concetto di “in proprietà” che dificilmente abilita le persone ad essere autonome, auto – imprenditoriali e coraggiose?

Un manager pieno di gratitudine e gentilezza non vive le persone come oggetti funzionali al risultato.

  • Avranno allenato la capacità di dare e ricevere feedback continui e puntuali.

La paura di non essere apprezzati come persone (paura del rifiuto), la paura di non essere visti come persone intelligenti (paura della vulnerabilità) insieme alla paura di non essere visti come portatori di risultati (paura di fallire) non è forse l’insieme delle paure più profonde che impediscono la percezione dell’utilità del feedback come dono?

Un manager pieno di gratitudine e gentilezza abbraccia tutte le proprie personalità anche quelle rinnegate (concetto di ombra), anche quelle che non vorrebbe vedere, accoglie il nemico – la qualità di cui si vergogna -come alleato e a maggior ragione apprende come accogliere le apparenti contraddizioni dell’altro.

  • Saranno in grado di gestire in modo autentico ed efficace tematiche quali: work – life -balance, politiche di welfare aziendale e aspettative di crescita professionale, garantendo la continuità di marginalità del business.

Un manager pieno di gratitudine e gentilezza con passo svelto rimodella consapevolmente e volontariamente la struttura organizzativa, ridefinendo cultura e valori, portando l’organizzazione complessa a diventare comunità organizzativa.

Ho avuto un anno intenso, pieno di soddisfazioni e ho ancora le energie per approfondire temi meno “suggestivi” e più “critici”.

E’ evidente che le organizzazioni stiano attraversando una #crisi d’identità.

Tante sono le sollecitazioni da parte delle persone che le abitano, poche le risposte chiare che le aziende riescono a dare. I temi centrali rispetto a cui il dialogo e la comprensione reciproca appare ancora da costruire sono:

  • dinamiche del lavoro ibrido: ovvero conciliare, con flessibilità, le proprie esigenze e responsabilità professionali con quelle personali.

Un concetto che è chiaro alle persone ma su cui le organizzazioni faticano a dialogare, mosse dalla paura di perdere il controllo.

  • LifeDeepLearning: acquisire conoscenze fuori dai contesti predisposti all’apprendimento, proprio per meglio attrezzarsi ad affrontare la complessità nel mondo.

Le persone desiderano acquisire più competenze trasversali ma non decontestualizzate dalla riflessione di chi siamo, chi stiamo diventando, ossia come esprimere noi stessi in ogni situazione.

Le aziende sono strutturate su una formazione focalizzata – upskilling e/o reskilling – a colmare i gap di competenze. Non sono ancora sufficientemente allertate per offrire un apprendimento orizzontale, mosso più dai bisogni e/o interessi della persona, in una dimensione più emotiva che razionale, più relazionale, nel confronto con gli altri.

  • Hr Analytics: tutti ne parlano, tutti si formano, tutte le organizzazioni pare investano. Osservo qualche integrazione rilevante sui processi, poco sulle modalità di lavoro e sulla cultura organizzativa.

Le persone invece sono curiose ed assetate di sperimentare nuove modalità operative, organizzative e relazionali, per accelerare l’acquisizione di diverse prospettive con cui osservare, agire e sperimentare. E le aziende nella maggior parte dei casi latitano e/o raffreddano gli animi.

  • Employee Experience ed engagement: qual è il nostro livello di coinvolgimento al lavoro?

Non c’è una definizione universale, seppur tutte convergono rispetto a tre elementi, come afferma William A. Kahn, uno dei pionieri del concetto di engagement – self -:

  1. Dimensione cognitiva: cioè la concentrazione sul lavoro e su come migliorarla;
  2. Dimensione emotiva: cioè il sentimento positivo legato al “fare un buon lavoro”
  3. Dimensione sociale – fisica: cioè l’intraprendenza attiva nel discutere con gli altri i possibili miglioramenti sul posto di lavoro.

John Smythe descrive l’employee engagement come: “la misura in cui le persone sono coinvolte in prima persona nel successo dell’azienda”.

Con altre parole è come parlare di:

  • Quanto le persone si sentano impegnate agli obiettivi e ai valori dell’azienda;
  • Quanto si sentano motivate al successo dell’azienda;
  • Come questo impegno e motivazione migliori il loro benessere.

Osservo qualcosa d’altro in questi tempi incerti, un numero sempre più crescente di persone che, durante la loro attività lavorativa, si ritirano fisicamente, emotivamente o cognitivamente.

Il legame tra la crisi d’identità delle organizzazioni e la distanza che le persone mettono tra sé e quel che fanno (il proprio ruolo) è evidente e non solo a causa di alcuni degli scollamenti sopra citati.

Appare rilevante ed urgente recuperare storie personali e organizzative, per far emergere valori manageriali dispersi, per migliorare l’esperienza di lavoro delle persone.

Vi è un legame tra migliorare l’esperienza di lavoro delle persone e il miglioramento dei risultati dell’azienda.

Perché?

Le organizzazioni che riescono a tradurre le dichiarazioni sui valori in azioni e comportamenti concreti sanno raccontare una storia coerente.

L’organizzazione che dialoga con le proprie risorse interne, che ascolta e dà spazio di espressività alle diverse preferenze ricorre ad un inquadramento più ampio, quello del condiviso, valorizzando la complessità e non un inevitabile appiattimento dei contenuti.  Entra in contatto emotivo con i bisogni e i desideri personali delle persone, ri-ottiene una miglior comunanza, attiva energia, crea un legame tra le singole persone e l’azienda.

Le persone si sentono coinvolte e vogliono supportare l’organizzazione per far sì che la strategia abbia successo.

L’attenzione delle persone si focalizza sulle priorità essenziali di risultato.

Si crea un ambiente di lavoro positivo, la #sicurezzapsicologica viene diffusa.

Ci si diverte, lavorando e le persone si sentono libere di esprimersi e proporre iniziative per il miglioramento e/o cambiamento.

Un ambiente organizzativo congeniale favorisce l’integrazione di un #nuovo mindset:

  • Coinvolgimento con ascolto attivo che parte dalle domande;
  • Sollevarsi dai dettagli, grazie al maggior coinvolgimento di tutti nelle decisioni, concentrandosi sulle soluzioni che ognuno può proporre;
  • Interazioni positive, attraverso lo scambio di feedback che serve a comprendersi;
  • Impegno e responsabilizzazione, partendo dal riconoscimento del successo del singolo

Così facendo crescono le persone, insieme all’azienda.