#greatresignation Archivi | Roberta Martini

Mi piace analizzare i fenomeni partendo dai dati quantitativi, proprio perché se ben analizzati possono supportaci a comprendere i fenomeni bypassando i “filtri” con cui ciascuno osserva la realtà.

Investo in più sondaggi e una ricerca: i dati Gallup, la ricerca dell’Osservatorio dei Politecnico di Milano e il sondaggio di Fior di risorse 2023.

Nel primo sondaggio citato emerge che:

  • 44% dei dipendenti negli US e nel Canada sperimenta molto stress;
  • Europa ed Asia sono scesi rispettivamente di 5 e 11 punti percentuali per benessere;
  • Benessere e coinvolgimento nel lavoro interagiscono tra loro, tanto da affermare che dipendenti disimpegnati sono un costo di 7,8 trillioni di dollari.

Dalla seconda ricerca estrapolo i seguenti dati, emersi da un campione di 800 lavoratori, rappresentativo sia dei white collar che dei blue collar e di 100 aziende di dimensione medio grand:

  • il 46% dei lavoratori ha cambiato lavoro negli ultimi mesi o è sul punto di farlo. Ma tra chi è già operativo nella nuova azienda, il 41% si è pentito della scelta che ha fatto;
  • il 42% si è assentato almeno una volta dal lavoro nell’ultimo anno per motivi di malessere psicologico e relazionale; per uno stato di ansia, ma anche problemi di natura sociale, come le relazioni interpersonali con capi, colleghi e collaboratori;
  • solo un 7% dei lavoratori si dichiara “felice” oggi;
  • sugli equilibri vita-lavoro si stanno affermando 2 dinamiche: il 43% dei lavoratori è portato a gestire in maniera integrata lavoro e vita privata – work-life integration. Il 57% dei lavoratori trova la propria soddisfazione al di fuori del lavoro-work-life separation

Nella terza indagine summenzionata 1/3 della totalità degli intervistati – 2mila lavoratori italiani – vuole cambiare lavoro, per diffuso malcontento, per i seguenti fattori citati in ordine di importanza:

  • scarsa realizzazione personale
  • il fattore economico
  • conciliazione vita privata e professionale.

Siamo in bilico tra catastrofe ed evoluzione?

Sicuramente siamo in un momento complesso, quasi incomprensibile, anche rispetto a temi più squisitamente economico-sociali. Se ci pensiamo, per esempio, era da anni che non si parlava più così insistentemente di inflazione. La pensione continua a slittare, apparendo una chimera.

Più volte mi sono interrogata rispetto a chi ha già un piede nel mondo delle organizzazioni e a chi lo vorrà mettere questo piede, soprattutto tenendo conto del fenomeno delle “grandi dimissioni”.

Ora grazie alla lettura del bel libro del filosofo Pietro Del Soldà ho messo in ordine pensieri e riflessioni che voglio condividere.

La vita fuori di sé di Pietro Del Soldà mi ha accompagnata a comprendere come le grandi dimissioni possano definirsi un’avventura e a cogliere più chiaramente il valore etico ma non solo dell’avventura, in questo momento così complesso.

L’avventura per come viene intesa, non è la fuga dalla realtà, il “prendo e mollo tutto, vado via…” .

Il filosofo P. Del Soldà dichiara che: “L’esperienza avventurosa rompe il ritmo ordinario della nostra esistenza ma pur essendo un punto di rottura nello stesso tempo mantiene misteriosamente un rapporto diretto con il centro della nostra vita, quello che siamo veramente”.

L’avventura viene intesa come un’esperienza che ci tira fuori da noi stessi, ossia esperienze che incidono il nostro guscio, fatto delle nostre abitudini/consuetudini. Non si tratta di fare un viaggio “di evasione”, l’esperienza può connotarsi avventura se ci cambia in modo permanente.

L’esperienza avventurosa porta in luce le nostre inclinazioni più profonde.

Per mantenere un ordine dell’esistenza, siamo soliti “azzittire” quel coro polifonico di desideri, idee, bisogni, pensieri, sacrificando parte di noi, in nome di un ordine consuetudinario.

Siamo destinati a muoverci in questo muro di piatte abitudini?

Per natura siamo spinti a proiettarci oltre il recinto del domestico, oltre il dominio tirannico delle abitudini perché con lo sguardo ci poniamo oltre quello che possiamo toccare, siamo sempre sbilanciati in avanti. – Pietro Del Soldà

Un prete amico, nel sollecitare a non stare troppo nella deriva narcisitica dell’Io mi disse che: ”Noi esistiamo perché il nostro nome viene pronunciato dall’altro”.

Con altre parole il filosofo Pietro Del Soldà sostiene lo stesso concetto quando afferma che: “c’è vita solo fuori di sé. Incontriamo noi stessi solo andando fuori, perché è la via che conduce al contatto profondo di sé”.

Rimanere ancorati alle proprie abitudini, vuol dire perdere il contatto con noi stessi.

Appare evidente che il blocco, inteso come il rimanere saldamente ancorati alle proprie abitudini, è il contrario dell’avventura e pregiudica oltremodo la nostra capacità di scelta.

La scelta infatti nasce da un faticoso lavorio che emerge nel confronto con tutte queste diverse forze, inclinazioni, idee, pensieri che si agitano dentro di noi.

Quando sopprimiamo i dubbi non stiamo scegliendo, stiamo agendo e aggiungerei agendo “male”.

Potrebbe risultare un elogio alle dimissioni?

Voglio semplicemente condividere che se le dimissioni sono una scelta che tiene conto di tutto ciò che siamo stati, di un presente che sacrifica parti di noi stessi, di un futuro dove percepiamo l’impossibilità di essere quello che vorremmo, allora queste dimissioni rappresentano un atto di responsabilità.

“Mettere in questione l’identità personale non è un voltare le spalle alle responsabilità ma è l’unico atto fondativo di un’etica in grado di reggere le sfide del nostro tempo”. Pietro Del Soldà

Le dimissioni potrebbero essere a tutti gli effetti un’avventura che ci conduce fuori dalla nostra confort- zone, portando in luce le nostre inclinazioni più profonde, aprendoci a nuove prospettive magari sopite.

In un’epoca in cui prevale “il corto-termismo – short termism – ovvero progettiamo, programmiamo e agiamo pensando al tornaconto immediato in termini di reputazione ed immagine” – P. Del Soldà -, ebbene le dimissioni appaiono come un gesto fatto per sé, per il senso e significato che se ne ricava, spezzando la catena che subordina il proprio agito al giudizio altrui.

Qual è il futuro per le organizzazioni complesse?

Basta affrontare il tema delle grandi dimissioni individuando una strategia per trattenere i talenti!!

Questo approccio è un modus operandi che affronta le sfide rendendole pericolose invece che trasformarle in opportunità gioiose.

Più cerchi di trattenere le persone, più scappano...

Potrebbe essere possibile, per le persone e le organizzazioni, creare un progetto professionale per ciascuno/a che sia una grande avventura che in qualsiasi momento ci porti a legare il passato con il futuro, trovandone un senso e un significato, rintracciando tutte le parti di sé, senza sacrificarne alcuna?

È possibile e auspicabile, ben sapendo che le nuove modalità di lavoro comportano un approccio che considera il lavoratore come una persona, con un suo insieme di valori e soprattutto di aspettative per il futuro, ma anche un capitale di competenze e di esperienze.

È una catastrofe? Una rivoluzione?

Dipende da come interpretiamo il manager moderno e il suo stile di leadership.

Propongo un modello multidimensionale di leadership che include i meccanismi delle esperienze interiori dei leader così come le loro azioni visibili.

Ritengo che richiamare l’attenzione sulle dinamiche dello scenario interno di una persona possa contribuire allo sviluppo della leadership. Analizzare le forze visibili quali i processi emotivi e mentali dei leader per allargare il campo d’azione e migliorare l’efficacia dello sviluppo della leadership è un obbligo che non può più essere posticipato/rimandato.

Il noto psichiatra Dan Siegel definisce questa consapevolezza “mindsight” (vista della mente), ovvero la capacità di osservare processi mentali di cui non siamo consapevoli, “la capacità di percepire la mente propria e altrui”. È importante notare che la “vista della mente” è diversa dall’auto-riflessione, focalizzata sulla riflessione delle esperienze passate allo scopo di migliorare il comportamento. La “vista della mente”, invece, è una pratica metacognitiva invocata nel momento presente per focalizzare la consapevolezza sui processi mentali.

Siegel sostiene che questa capacità di entrare in sintonia con la nostra mente e con le menti altrui sia alla base dell’intelligenza emotiva e sociale e rappresenti la chiave per l’apprendimento, la crescita personale e la trasformazione.

Si determina quindi un nuovo stile di direzione del manager che comporta la gestione dell’organizzazione secondo un approccio open source e sistemico:

  • le scelte vanno prese insieme alle persone;
  • le persone sono responsabili della realizzazione delle scelte di cambiamento
  • sii monitora e ci si confronta apertamente sugli eventuali scostamenti, senza annullare la gerarchia, ma trasformandola.

Secondo recenti studi, gli psicologi positivi hanno inoltre enfatizzato l’importanza di ambienti favorevoli sul funzionamento umano, dimostrando che le persone si rivelano più aperte mentalmente e più efficaci nella risoluzione dei problemi quando si trovano in uno stato positivo piuttosto che negativo – Barbara Fredrickson.

Lo psichiatra e psicanalista statunitense Donald Meltzer, in aggiunta, ci insegna che:

  • La “bellezza” di un luogo, che sia un paesaggio o altro, è data non dalla mera bellezza ma perché il suo impatto estetico, qualunque cosa sia, accende un circuito neurale che potrà produrre un evento psichico;

Come creare allora degli interventi organizzativi che sviluppino positività?

È opportuno favorire un rapporto con il “paesaggio organizzativo” che implichi il corpo e la sua percezione sensoriale, si carichi di affetti e memoria, così da diventare elemento di identità.

Cosa significa in termini concreti?

È affermare che la complementarità tra management e leadership diventa il cardine per assicurare il successo organizzativo di lungo periodo.

Non viene richiesto al manager semplicemente di allineare tutti i talenti delle risorse umane per raggiungere un obiettivo, bensì di attuare tutte quelle strategie affinché “il paesaggio organizzativo” inteso come contesto possa consentire alle persone di crescere, vivere, prosperare ed essere fruttifere, autonomamente.

Un’esperienza che valga la pena vivere richiede che sia pensata, progettata, disegnata, realizzata e monitorata con grande acume, impegno e partecipazione.

Sono processi articolati che richiedono approcci multidisciplinari e tempi lunghi?

Se queste iniziative sono governate insieme alle persone i tempi si accorciano, l’ho visto con i miei occhi.

Il tema dell’impegno temporale è un alibi della grande organizzazione per non dare vita ad iniziative consistenti.

Desiderate provare per verificare?

#Greatresignation #talentshortage #talentretention

 

Penso di poter affermare, pur non avendo girato tutto il mondo, che qualunque società si caratterizzi per il seguente stereotipo di genere: aspettarsi che l’uomo manifesti la “mascolinità” la donna la “femminilità”.

Se rifletto sulle conseguenze che questo insieme rigido di credenze condivise e trasmesse socialmente porterebbero alle persone che lavorano in contesti organizzativi globali, immagino che ci perdano tutti, uomini e donne, almeno sui temi: leadership e dell’ingaggio delle persone.

Ogni essere umano ha bisogno di esprimere i lati della propria personalità, senza soffocarne alcuno ed essere riconosciuto “amabile” per com’è.

Come uomo, se vale la norma sociale evidenziata, sarò eccitato ad esprimere lati della mia personalità come la lucida razionalità, la decisione, la competenza, l’assertività, l’essere forte. Potrei essere portato ad escludere, pagando con la non amabilità, l’intuizione, la gentilezza, la premura, la collaborazione, il rispetto, la delicatezza.

Come donna, se vale la norma sociale evidenziata, sarò eccitata ad esprimere lati della mia personalità come l’intuizione, la gentilezza, la premura, la collaborazione, il rispetto, la delicatezza. Potrei essere portata a negare i tratti cosiddetti maschili come la lucida razionalità, la decisione, la competenza, l’assertività, l’essere forte.

Se un professionista uomo possedesse solo tratti maschili potrebbe risultare brutale nell’esercizio della leadership e nell’ingaggio delle persone così come, all’opposto, la professionista donna potrebbe risultare mite. Entrambi metterebbero a repentaglio non solo le rispettive competenze, almeno nel contesto organizzativo, ma non risulterebbero maturi per poter agire ciò di cui loro come persone hanno bisogno: poter esprimere tutti i lati della propria personalità, sentendosi amabili.

Con questo preconcetto il professionista uomo rischia di mettere a repentaglio la spontaneità, cercando di controllare i suoi lati della personalità più femminili. La professionista donna, invece, in un mondo lavorativo non del tutto libero da machismo, potrebbe snaturarsi, negando la sua femminilità per accentuare la sua parte maschile.

Come fate voi manager a pensare che le persone abbiano bisogno di “riferimenti” che non hanno appreso l’abilità di “portare se stessi” in tutte le sfaccettature, ossia ciò che li rende unici?

Forse da questo deriva la vera depressione delle persone che lavorano nelle organizzazioni.

Aumenta la depressione nelle organizzazioni l’assenza di manager capaci di far vedere la propria corona della “femminilità” e della “mascolinità”, basata non sulle norme del ruolo di genere, ma piuttosto sulla capacità di sentire la propria unicità come un oggetto di conoscenza.

Appare evidente che il primo passo per ingaggiare le persone è armonizzare la parte considerata prerogativa maschile e femminile in ciascuno di noi, dando spazio a soggettività e unicità.

Serve forte crescita dei responsabili cosiddetti leader per prendersi seriamente cura della trasformazione della cultura manageriale, generando risvolti interessanti sull’etica del lavoro.

La trasformazione della cultura manageriale è fondamentale. La #consapevolezza di sé contribuirà positivamente alla #responsabilizzazione sui risultati e alla #autonomia in tutti i livelli dell’organizzazione.

In questi anni recenti è molto in voga ”addestrare ” alla cultura della diversità e inclusione.

Secondo voi è possibile lavorare sulla D&I se le persone dell’organizzazione non hanno ancora appreso l’arte della crescita “dell’intera persona”?

A me sembra di imboccare un sentiero con la prospettiva di rimanere stupefatti dal viaggio per una possibilità imminente per poi finire più che altro in una pietraia, senza traccia erbosa.

Sento frequentemente parlare di disfare il concetto di genere per investire in progetti di diversità e inclusione.

Personalmente più che disfare protenderei sul riparare.

Posso ripararmi da una tempesta e posso riparare l’orologio come fa l’orologiaio.

E’ la parola che a che fare con il lavoro anziché con la distruzione che è interessante.

Per aggiustare devo guardare con attenzione il danno (la negazione forzata del maschile o femminile in ciascuno di noi a seconda che si sia donna o uomo) e progettare passo dopo passo la riparazione.

Prendo in prestito delle parole che la meravigliosa Liliana Segre ha detto ai giovani: “Io non perdono e non dimentico ma non odio”.

Non disfare il concetto di genere ma lavorare alla possibilità di riparare significa lavorare alla possibilità di “nascere” di nuovo, con la consapevolezza delle proprie ottime strumentazioni.

E giunti a questo punto….cosa possono fare le organizzazioni per abilitare esperienze di apprendimento che forniscono opportunità di #autoriflessione e di creazione di significato?