Gentile Professore Luigino Bruni
Ho letto con interesse il suo articolo sulla leadership che mi ha spinta a riflettere e farmi alcune domande.
Ho riflettuto su quale fosse stato il suo obiettivo ultimo nel donare il suo pensiero.
Se il suo desiderio è stato quello di creare un po’ di scompiglio per far riflettere i suoi lettori allora la seguo (condivido) e la ringrazio.
Se il suo mandato interiore è stato, invece, quello di mettere un po’ di ordine sul tema, allora dissento per molteplici aspetti, che voglio qui condividere.
Ho letto la sua presentazione sul suo sito e mi permetto di citare uno stralcio:” Le singole discipline, tutte, muoiono quando cercano di passare dalla teoria alla vita. Per risorgere devono iniziare a dialogare con le altre discipline sorelle, perché i verbi che aprono la vita e la spiegano devono essere declinati alla prima persona plurale (noi)”.
Appare evidente, quindi, che il suo personale modo di approcciare le situazioni/opportunità/problemi è quello multidisciplinare, almeno in questo modo si presenta.
Mi sono chiesta allora come mai definisce la leadership e articola la sua riflessione secondo una sola teoria della leadership, ossia quella dell’influenza, quando ne esistono molteplici. Non le appare come una evidente contraddizione?
Con rispetto e umiltà, sono convinta che uno storico come lei che ha l’attitudine a ricercare, studiare, analizzare certamente più approfonditamente di me, è sicuramente a conoscenza che per parlare oggi di leadership non si può prescindere dal considerare i diversi elementi che la costituiscono.
Trovo riduttivo parlare di leadership come: “la leadership è intesa come la capacità di un leader di influenzare una o più persone”, poiché significa ridurre una riflessione ad una sola delle prospettive necessarie con cui riflettere e ragionare sul tema della leadership.
Qui nasce una domanda o una curiosità verso il suo pensiero: Chi ha un pensiero critico su altre professioni, senza essersi abbondantemente informato, lei ritiene possa essere ritenuto “manipolatore”?
Alcuni di coloro, io sicuramente, che oggi si occupano di condividere questi temi con le persone che lavorano nelle organizzazioni complesse lo fanno, da almeno un decennio, invitando a riflettere sul tema del guidare il gruppo in una logica comunitaria. La gerarchia attribuisce sulla carta al leader il potere di influenzare i seguaci ma oggi le organizzazioni più evolute che sono delle vere comunità organizzative attribuiscono pari potere alle altre persone sia di sostenerne le potenzialità del cosiddetto leader sia di invalidarle qualora il leader disattenda le aspettative collettive.
La letteratura scientifica psicologica ci indica che l’essere umano in quanto tale agisce con la pulsione di essere permeabile e/o impermeabile, nello stesso tempo.
Il teologo Paul Tillich definisce queste due pulsioni: potere e amore.
Gli spunti offerti da queste due discipline ci indicano la via. Ciascuno di noi, in quanto essere umano, è sia leader che follower, secondo le azioni che mette in campo – ma nello stesso contesto e con le stesse persone.
Per dare nuova dignità al tema della leadership è veramente necessario iniziare con il mettere seriamente in discussione il sostantivo? È prevalentemente solo questo il problema come appare da ciò che scrive?
Forse il “problema” può sussistere nell’intreccio di una caratteristica innata dell’uomo quando viene ad incrociarsi con l’elemento della gerarchia “spinta” nelle organizzazioni.
Allora sì concordo. Potrebbe, infatti, accadere che l’essere umano rischi di utilizzare le sue due forze – amore e potere- non più in modo generativo ma degenerativo (manipolazione e imposizione, senza crescita dei suoi follower).
Se si persegue un intento di “rottura” per fermarsi e riflettere, le generalizzazioni possono essere utili concorda? Con questa prospettiva il suo articolo mi è risultato interessante. Se, al contrario, ambiscono a spiegare un fenomeno in una logica deduttiva, non trova che possano essere rischiose/pericolose ?
Concludo condividendo che a mio avviso accompagnare le persone a conoscere ed approfondire il proprio potenziale per migliorare la qualità del lavoro e il benessere della comunità organizzativa, comporta considerare almeno 5 aspetti peculiari che sostanziano delle riflessioni serie sul tema della leadership:
Dopo aver condiviso queste considerazioni, le rinnovo il mio grazie per il suo articolo che è “utile”, seppur non sufficientemente esaustivo sul tema della leadership, se non altro perché cita una sola teoria con un solo approccio (P. Hersey e K. Blanchard, 1982).
Stiamo attraversando tempi indefiniti in cui è necessario avere l’umiltà, il coraggio e la responsabilità di proporre riflessioni anche scomode, nell’intento di ridurre e/o eliminare ostacoli verso un bene comune dove il “noi” possa amalgamare quanto più possibile tutte le conoscenze per il benessere comune all’interno dei team.
Articolo originario: https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/contro-il-mito-della-leadership-e-per-un-elogio-della-sequela
@Professore Luigino Bruni
“Crisi d’identità delle organizzazioni” nell’agosto 2022 ho affrontato lo stesso argomento con una riflessione.
Oggi, non è più una mia opinione ma un dato visibile ai più. Per questo insisto con impegno e tenacia a riproporla perché c’è un paradosso che riguarda le generazioni attuali.
In questo momento storico, c’è una fortissima pressione sui risultati. Ho quasi la percezione che questa attenzione sia spasmodica, così snervante da portarci a una possibile mutazione del comportamento umano: vivere quotidianamente sotto stress e, quindi, imparare a non ricadere in fenomeni possibili come il burn out.
Senza abusare del termine resilienza, di cui se ne fa un gran parlare magari solo per manifestare la nostra “modernità”, mi domando: ma sarà mai possibile questa mutazione? E soprattutto: è ciò di cui abbiamo veramente bisogno e, ancor di più, vogliamo?
Tornando alla riflessione sul paradosso, osservo una tendenza diffusa nell’investire in strumenti per creare nuove modalità di lavoro – smartworking, wellbeing digitalizzazione, per citare alcuni – ideati e pensati per garantire qualità del lavoro e benessere delle persone.
La frenesia ossessiva nel presidio dei risultati può andare a braccetto con le nascenti nuove modalità di lavoro?
Molti autori che hanno analizzato e rappresentato i processi di cambiamento organizzativo delineano efficacemente la fase di transizione tra “stadi” di percorsi evolutivi più ampi.
Per accelerare il cambiamento bisogna creare situazioni di “rottura”, dotando l’organizzazione di strumenti raffinati che rispondano a bisogni impliciti dell’organizzazione stessa che, semplicemente nell’immediato in quanto ancora non evoluta, non saprà utilizzare al meglio. (John Kotter, Otto Scharmer, Edgar Schein)
Potremmo pensare che siamo nella direzione utile per definire un nuovo paradigma in cui si situa una fase dell’evoluzione delle organizzazioni e dei modelli di lavoro.
Non voglio porre l’attenzione su quali nuove modalità di lavoro si definiranno, ben venga riscrivere la nuova storia dell’organizzazione!
Quello che è rischioso è farlo attraverso un investimento “truccato”.
Le organizzazioni stanno ridisegnando le nuove modalità di lavoro senza investire nel legame tra le singole persone e l’azienda, causando, per esempio, fenomeni come il quiet quitting.
Il film “the quiet girl” mostra molto bene come una relazione difficile – una delle due parti può sentirsi invisibile agli occhi dell’altra – a poco a poco si distende e fiorisce, grazie alla riduzione della distanza, con un ascolto autentico, interessato, attento alla comprensione di quello che emerge.
E’ una metafora che per analogia descrive altresì in modo efficace come fare a ricostruire le organizzazioni, senza perdersi di vista, guardandosi, nella lentezza e in una dimensione di comunità organizzativa.
Per creare e conciliare efficacemente risultati, qualità del lavoro e benessere delle persone, bisogna accettare che l’investimento vada curato giorno dopo giorno.
E’ necessario che coloro che governano l’azienda vivano questa responsabilità in una dimensione che esula dalla relazione responsabile-collaboratore-proprio team verso una dimensione più amplia di comunità organizzativa.
Il film “the quiet girl” racconta in modo magistrale come per ricomporre un legame ci sia bisogno di comprensibilità, per scrivere una nuova pagina insieme. Grazie alla parola, al dialogo, al confronto, che generano cura e attenzione nel tempo, le relazioni si distendono e ricompongono fino a portare la protagonista a far sbocciare l’autonomia e la volontà di scegliere il proprio futuro.
I coniugi Kinsella (una coppia di mezza età) ospitano Cáit, una giovane fanciulla malconcia perché trascurata, parente lontana, che viene momentaneamente allontanata dalla famiglia di origine. Questi riescono a farla fiorire, con un ascolto costante nel tempo e che cresce com’è nell’ordine naturale delle cose, fino ad arrivare a conoscere e comprendere le reciproche necessità.
I coniugi Kinsella sono un invito per i C-level: un insegnamento all’umiltà, al coraggio di prendersi la responsabilità di rallentare, fermarsi, osservare, ascoltare per conoscere veramente le necessità delle persone e poi decidere insieme.
Ripartire da zero nel dialogo con le persone, con il talento “della velocità” insieme al talento “della lentezza” è la sfida di “adattamento” dei C-level per governare davvero questa transizione, verso nuove modalità di lavoro.
Perché è una sfida di “adattamento” per i C-level?
Negli anni ho lavorato con un numero elevato di persone che ricoprono ruoli apicali e ho colto una caratteristica che li accomuna: un rapporto virtuoso e accelerato con il tempo, rispetto alla dimensione del pensare, sentire e agire. Questa qualità ha permesso loro di poter governare le organizzazioni efficacemente, con agio personale e professionale.
Nei decenni passati è stato il loro talento principale per poter governare armoniosamente le organizzazioni.
Questo talento fioriva in ambienti più stabili degli odierni, meno caoticamente veloci, non in continuo cambiamento dinamico.
Agire in tempi moderni questo talento richiede una grande sfida di adattamento, proprio perché lo scenario circostante non è stabile ma in costante divenire.
Accelerare, quando il mondo intorno a noi continua a procedere con una velocità e una competizione più che sproporzionata, potrebbe non essere più il solo talento prioritario a cui ricorrere.
Questo talento da solo diventa degenerativo.
Solo quando possiamo lavorare con il “talento della velocità” e il “talento della lentezza” possiamo risolvere problemi difficili.
È necessario sviluppare questi due lati di noi stessi.
Non si tratta di trovare un equilibrio ma di lavorare su ciascuno di essi, lasciarli crescere insieme.
La lentezza, praticata dal rallentare diverrà il muscolo da sviluppare per i C-level.
“Rallentare” non vuol significare semplicemente introdurre delle pause nel proprio agire.
Quella sensazione di impazienza, noia, inutilità nella relazione con gli altri ritenuti non rapidi, fulminei, veloci, frequentemente attanaglia i C-level ma può trasformarsi da nemica in amica se la si riconosce, accoglie e comprende, come un nuovo comportamento.
La definirei come un’attitudine mentale da sviluppare in relazione al tempo, nella relazione con gli altri.
E’ proprio nei momenti in cui i C-level si compiacciono della loro abilità di essere veloci in tutto – nel pensare, nel decidere, nell’agire – che rischiamo di utilizzare il loro talento in modo degenerativo.
L’azione veloce non è sufficiente, poiché è possibile perdere la focalizzazione su cosa osservare e sapere per motivarsi e ispirarsi ma ancora di più per motivare e ispirare le persone all’autonomia realizzativa ed alla responsabilizzazione.
Ricorro ancora ad una sceneggiatura offertami da un altro splendido film: “Gli spiriti dell’isola”.
Su un’isola remota al largo della costa irlandese, Pádraic è sconvolto quando il suo compagno Colm interrompe improvvisamente la loro amicizia di una vita. Pádraic si propone di recuperare il rapporto danneggiato con ogni mezzo necessario.
Questo film ci accompagna a cogliere il viaggio di sola andata verso l’oblio. Quando i protagonisti perdono il contatto con il punto di vista dell’altro, quando si sentono così nel giusto nell’osservazione del reale, dimenticando la propria soggettività che inevitabilmente li influenza, quando assecondano solo la loro velocità di proporre soluzioni per risolvere problemi, i protagonisti del film come i C-level costruiscono muri invalicabili che poi rischiano di sfociare, come infatti accade, in un conflitto distruttivo e/o un allontanamento fisico o un distacco mentale delle persone dell’organizzazione, senza rimedio/ritorno.
Ripartiamo da zero nell’osservare la necessità organizzativa contemporanea per riscrivere nuove modalità di lavoro invece di fare un’operazione “truccata”, con la moltiplicazione di disordinate iniziative aziendali rivolte al benessere e alla qualità del lavoro.
Durante le vacanze natalizie mi sono concessa una “scorpacciata” di film al cinema.
Ne ho visti due bellissimi, di cui voglio parlarvi, guardandoli rispetto alla prospettiva di osservazione dei comportamenti umani.
I film ci sollecitano e ci allenano a ricorrere al mondo fiabesco. Per questo credo che il cinema faccia molto bene, ancor di più in questi tempi incerti.
Perché la fiaba è utile per le persone adulte?
La fiaba è vicina al sogno, un sogno lucido, che possiamo guidare, interrompere, quando vogliamo ma da cui possiamo accelerare processi di apprendimento dati in prima istanza dal gioco e dall’arte proprio perché inducono altri stati di coscienza con relativi inshight (Alfonso Maurizio Iacono).
Le otto montagne: vivere nella libertà e nel mistero.
È un film tratto dall’omonimo romanzo di Paolo Cognetti del 2017, che racconta la storia di una profonda amicizia nata ai piedi del Monte Rosa tra Pietro, ragazzino di città, e Bruno, suo coetaneo che vive a Grana sui monti della Valle D’Aosta.
E’ un film che si snoda su molteplici livelli.
Ci accompagna a comprendere come il paesaggio vada oltre lo sguardo e la contemplazione. La montagna, in questo film, si carica, infatti, di affetti e memoria e diventa elemento dell’identità dei due protagonisti.
Il tema centrale, che mi ha rapita durante la visione, per come viene raccontato, è quello che vivere vuol dire incontrare se stessi e che c’è qualche cosa di malinconico nel pensiero di non farlo – “Chi impara di più su se stesso? Chi scala la montagna più alta, il monte Sumeru, oppure chi gira il mondo per scalare le otto montagne, intorno ad esso?” – antica leggenda nepalese.
Pietro e Bruno, amici d’infanzia e ora uomini, hanno un modo differente di trovare come diventare loro stessi.
Questo splendido film riprende il pensiero di Jean Bertrand Pontalis: “Per avere qualche speranza di essere noi stessi, dobbiamo avere molti luoghi dentro di noi”. La nostra storia e la nostra psiche sono anche una geografia, ossia siamo inseparabili dai nostri luoghi, per amore o per rancore e, tendenzialmente, il nostro luogo non è mai uno solo.
Ciascuno di noi crea con il paesaggio un rapporto personale e intimo.
Per Bruno capire come vivere e non lasciarsi vivere significa collocare questa ricerca di se stesso nella mappa conosciuta del reale, la montagna dove è nato. Per questo protagonista trovare la propria “isola interiore” in cui si è padroni di se stessi, potrebbe dover comportare il vivere una via del mistero assoluto e della libertà assoluta, costi quel che costi – “So vivere da solo, non è poca cosa…….questa montagna non mi ha mai fatto male…”.
Per Pietro capire come vivere e non lasciarsi vivere comporta intraprendere un cammino di mutazione, ossia non collocare questa ricerca di sé nella mappa conosciuta del reale, la montagna dove ha vissuto momenti determinanti della sua crescita, ma intuire in cosa, questa ricerca di sé avrebbe modificato la mappa, l’esatto punto in cui avrebbe trovato l’appoggio per ruotare su questa mappa per farla diventare paesaggio nuovo e inimitabile.
Il film ci parla di come imprimere dei cambiamenti nelle proprie vite, perfino quando si tratta letteralmente di vita o di morte, sia esasperatamente sfuggente, se non c’è desiderio e motivazione. Racconta di come il desiderio e la motivazione non siano sufficienti, senza aver compreso quanto le nostre convinzioni individuali ci possano rendere resistenti al cambiamento. Il punto non è se le nostre convinzioni sono o non sono vere, ma finché pensiamo lo siano, ne impediamo la messa in discussione. È necessario acquisire un modo di apprendere più complesso, aumentare il proprio livello di coscienza, che permetta di guardare al cambiamento non obbligatoriamente attraverso il proprio schema.
Le 8 montagne esplora, così come “la timidezza delle chiome”, la relazione parentale e amicale, l’importanza e il senso di pienezza, che permettono di liberare le nuove potenzialità di ciascuno, grazie al rapporto con l’altro.
La timidezza delle chiome: nessuno è normale
E’ un racconto documentaristico sulla crescita di due gemelli monozigoti, Josh e Benji. Una sceneggiatura vera, concreta, reale, senza fronzoli e per questo estremamente poetica, almeno per me.
Sollecita molte riflessioni interessanti, dolci e mature. E’ un tripudio a chi vuole vivere in modo pieno.
Il film le 8 montagne si connota con le stesse caratteristiche, sebbene con un canovaccio diverso.
Entrambi descrivono l’abilità di prendere possesso della propria vita, qualunque sia, amandosi e costruendone il proprio significato: mi interessa ciò che riesco a fare, non importa ciò che non riesco a fare, personalmente sono abbastanza.
Racconta di attitudini e comportamenti che rischiamo di dare per scontati, ma che sono tanto vitali per il nostro benessere quanto per i nostri bisogni universali: appartenere, autorealizzarsi, crescere.
Parla della semplicità di essere se stessi e di come questa dotazione naturale che ci viene attribuita alla nascita renda la vita ricca di senso, profondità e bellezza. Un gran bel vivere!
Racconta di un cammino per conoscere il proprio sé con autenticità e spontaneità, per esprimersi, andando all’essenza nella comunicazione con l’altro, con una grazia inusuale.
Narra di un’idea della relazione sana. Non esiste una identità a se stante. Nel rapporto con l’altro definisco la mia identità. Ognuno di noi è una nomade nella sua identità che va custodita. Dall’altra noi siamo parte di un tutto, nomadi che hanno la capacità di riflettere in sé le altre nomadi, formando un tutto di identità ricche, complesse e comunicanti (G. Wilhelm von Leibniz).
Josh e Benji lo sanno bene. Non possono accettare di stare immobili a osservare il mondo, senza interagire, a causa della loro disabilità cognitiva, anzi corrono, gli vanno incontro, nell’urgenza del loro bisogno di crescita. Non lo respingono questo mondo, semplicemente si oppongono in modo costruttivo. Creano un rapporto con il mondo con cui si confrontano nella mediazione. Non vuol dire che non si oppongano, come frequentemente fanno i giovani per crescere. Hanno però una conoscenza ben radicata in loro: il rapporto con l’altro è così necessario che sono disposti ad affrontare i pericoli di questa relazione, in quanto unica strada per sviluppare se stessi.
Vivono una paura costruttiva. Non viene agita una paura-fuga, vedendo un mondo pieno di minacce. I due protagonisti si sforzano di comprendere le ragioni delle cose, il punto di vista dell’altro, con una dedizione, un ascolto e un’empatia da urlo. Vanno nel riconoscimento dell’altro, nel rapporto dialogico, ben intuendo che questo gesto rafforzerà la propria identità.
Il documentario fa cogliere come la dinamica del conflitto sia necessaria per andare avanti e progredire. Il conflitto, la possibile tensione che ne deriva, ci permette di passare da una identità insignificante a una identità ricca di singolarità, grazie al confronto con l’altro.
Loro sanno che non è essenziale arrivare ad una soluzione con parole che vadano bene a tutti. Sanno molto bene che il dialogo risolve i conflitti ma non necessariamente le tensioni. Non cercano di allontanare queste tensioni. Le vivono come il presupposto utile per ritornare poi a condividere le proprie prospettive a livello umano.
Questo canovaccio ci racconta dell’abilità dei due gemelli di ricorrere al mondo fiabesco.
I due fratelli investono nella loro fiaba personale di essere romani, non come antidoto alla sofferenza di un mondo talvolta ostile, ma come risorsa personale per riavvicinarsi al mondo con energia ed entusiasmo. Affrontano il dolore, lo sentono, lo vivono, anche grazie all’abilità di entrare ed uscire da questo dolore con il loro sogno lucido che interrompono quando necessario.
Ora viviamo un’ingiunzione al godimento: prendere immediatamente, per appagare i propri appetiti. È più una simulazione della vita, che non vuole fare i conti con la preoccupazione, il disagio e il dolore. Ma non c’è speranza senza preoccupazione!!!
Josh e Benji imparano a vivere al presente, lasciandosi guidare dall’intuizione per “usare ciò che loro stessi sono”. Entrambi si imbarcano nell’avventura militare, l’uno convinto di trarne un senso e significato per la propria vita. L’altro aperto alla sperimentazione. Non vogliono separarsi, sarebbe troppo doloroso. Eppure quando capiscono che la strada dell’uno non può essere anche la strada dell’altro gemello, hanno il coraggio di interrompere il progetto comune, costi quel che costi, pur di vivere una vita che li rispecchi nei propri bisogni più profondi.
Agiscono la miglior definizione di coraggio a cui potrei pensare: agire e andare avanti anche quando si ha paura.
Questi docu – film raffigurano la miglior descrizione concreta di una vita vissuta intensamente, con il pensiero del cuore, a cui potrei pensare.