La rivoluzione dell’incertezza: cosa può insegnarci l’Alzheimer sul vivere (e lavorare) meglio
Dall’Alzheimer alla leadership più completa e impattante: un invito a ripensare le nostre abitudini emotive e professionali.
Introduzione
Avere una madre affetta da Alzheimer è una esperienza dolorosa e destabilizzante. In questo cammino, giorno dopo giorno, ho scoperto una forma inaspettata di saggezza. Una lezione che parla di lentezza, presenza, corpo, emozioni, autenticità… e che sta trasformando il mio modo di pensare la vita e anche il lavoro.
In questo articolo condivido un’esperienza personale che mi ha portata a riflettere sul modo in cui affrontiamo l’incertezza, dentro e fuori le organizzazioni.
Questo articolo unisce il racconto intimo di un’esperienza familiare con uno sguardo sulle organizzazioni e sulla nostra capacità – o incapacità – di agire nel presente, senza rifugiarsi nel già noto.
Che cosa succederebbe se imparassimo a rallentare, a osservare, a perdere il controllo, a restare presenti anche quando le certezze mancano? Forse cambierebbe tutto, dentro e fuori le organizzazioni?
Ho una mamma ammalata di Alzheimer.
Osservarla ogni giorno mentre questa malattia la porta via è un dolore profondo che impatta la mia vita e la trasforma. Diventare testimoni del suo spaesamento, della sua tristezza e paura di perdere il proprio presente – e, ancor di più, il passato – è una ferita che non smette di pulsare.
Mi domando spesso cosa significhi vivere con un presente nebuloso e un passato che si appanna giorno dopo giorno.
Credo che la nostra memoria sia l’architettura invisibile dell’identità: un intreccio di emozioni, affetti e significati che ci permettono di riconoscerci, di agire, di stare al mondo, in risonanza.
Allora mi chiedo: è possibile vivere una vita autentica, se si è privati della propria soggettività presente e della memoria del passato?
Non ho una risposta. Ma osservo. E osservo che, anche in mezzo a una delle peggiori privazioni, mia mamma sta vivendo. E non solo: sta reimparando a vivere.
In questo cammino doloroso, mia madre mi sta regalando una nuova forma di insegnamento: vivere ogni giorno senza esperienza, senza memoria, può essere un atto rivoluzionario.
Non sa più con certezza da dove viene, non può più contare sulla propria esperienza passata.
Eppure osserva, assimila lentamente, cerca di capire il contesto in cui si trova. Fa domande, molte domande, perché fatica a valutare e decidere.
Ma non si ritira dal mondo. Non si spegne.
Rimane. Nonostante tutto.
Ha lasciato andare il bisogno di controllo – un tratto che l’ha sempre definita – ma ha conservato, con lucidità disarmante, la consapevolezza dell’impatto che ha sugli altri. Si concede tempo.
Scruta, osserva, rallenta.
Il suo corpo ha preso il timone.
E come lo deduco? Dallo sguardo. Dall’intensità con cui osserva gli altri, come a scrutare pazientemente l’anima altrui per orientarsi. Esplora la realtà come un’opera d’arte: senza fretta, con il corpo che conserva più memoria della mente.
“L’intero corpo registra il pensiero emozionale.”
— Edmund Jacobson
Il suo corpo le insegna a vivere un giorno alla volta, un passo alla volta. A pensare, come scriveva Merleau-Ponty, “con tutta sé stessa: con la testa e con il corpo”.
Il suo corpo oggi dice molto più di mille parole.
Fa linguacce, con affetto, per dissentire, sbuffa se è stanca, distoglie lo sguardo per dire basta.
E quando scende le scale… conta i gradini. Per restare ancorata al suolo.
Una strategia tutta sua, forse per mettere a tacere quel “cervello-scimmia” che salta da un pensiero all’altro. Una forma primordiale di mindfulness.
È una rivoluzione lenta, silenziosa. Ma potente.
Questa osservazione mi pone una domanda:
E se nelle organizzazioni imparassimo a decidere anche da una posizione di “non-conoscenza”? A rallentare per ascoltare davvero?
E se la vulnerabilità fosse una competenza?
La rabbia, e la sua forza trasformativa
Una riflessione a parte merita la rabbia. Un’emozione primaria, innescata da minacce, frustrazione, ingiustizia. Serve per attivare una reazione, per difendere il proprio benessere. Ma se resta, diventa disfunzionale: genera comportamenti impulsivi, fuori governo.
La rabbia può essere ancorata al passato (come desiderio di vendetta), o al futuro (come anticipazione di minacce non ancora accadute). In entrambi i casi, ci blocca nel tempo sbagliato.
E la rabbia della mammetta?
La vive nel presente.
Forse fatica ad abitare il passato.
Forse non anticipa più minacce future.
Forse ha imparato a sentire la rabbia non filtrandola con la mente – ormai più lenta e faticosa – ma affidandosi al corpo.
Vive l’emozione quando si manifesta. Non la trascina dietro. Non la carica di significati pregressi. Questo le permette di cogliere il bisogno che la rabbia le segnala, e di orientarsi in modo funzionale.
“Ogni emozione ha una specifica qualità temporale.
La rabbia tratta il presente.”
— George Thomson
Si affida al corpo, a una sapienza arcaica, profonda, umana.
La rabbia, vissuta nel presente, non è distruttiva. È orientamento. È bussola.
La maggior parte dei malati, lo so, non riesce, frustrati dalla perdita di competenze e comunicazione.
Ma mia madre, per qualche strano dono, ha disimparato la rabbia disfunzionale.
Ha disimparato il controllo. Ha smesso di rincorrere il tempo.
Ha reimparato la lentezza.
Cammina piano. Non per debolezza. Ma per precisione. Per connessione.
Ha capito che la sua testa ha perso il contatto con i piedi. E allora li fa dialogare.
Ricordate l’espressione “avere i piedi per terra”?
Ecco. Lei ha riscoperto cosa significa.
Radicarsi per non volare via.
“C’è un legame segreto fra lentezza e memoria, fra velocità e oblio.”
— Milan Kundera
Dalla perdita all’acquisizione: un cambio di sguardo (anche nelle organizzazioni)
Mia madre ha perso la memoria, ma ha acquisito l’essenziale.
La misura. L’intenzione.
Ogni giorno investe su di sé, non per contrastare la malattia, ma per abitare questa nuova fragilità con tutta la dignità possibile.
E allora mi chiedo: E se guardassimo chi attraversa certe malattie nell’“acquisizione di” piuttosto che nella “perdita di”? Cosa cambierebbe nella nostra relazione con loro?
E se portassimo questa stessa logica nei contesti organizzativi, nei confronti di chi ci appare distante o incomprensibile, chi non comunica con noi, chi vive una transizione?
Vederla ancora in piedi, vulnerabile ma presente, dimentica a tratti di sé, eppure capace di restare nel mondo… è forse l’ultima, preziosa lezione che riceverò da lei.
Mia madre, oggi, mi insegna la libertà.
Quella che non ha bisogno di spiegazioni.
Quella che non chiede permesso.
Ne frattempo, io – che mi ritengo spontanea, autentica, coraggiosa – libera non lo sono ancora.
Lo capisco quando la sua spontaneità mi mette a disagio.
Quando temo che non sia “adeguata”.
Segno che porto ancora addosso le aspettative – mie e altrui.
Questo mi dice che ho ancora molta strada da fare.
In questa pausa estiva lavorerò alla mia via d’uscita: essere più vera, nel lavoro e nella vita.
In questa pausa estiva mi impegno. A cercare la mia via di uscita.
Per essere più autentica, in ogni situazione, e per camminare nel mondo senza maschere.
“Essere non significa solo stare al mondo,
ma interrogarsi sul come si sta al mondo.”
— Martin Heidegger
E io voglio starci così: autentica. Intera. Umana.
Non prigioniera delle aspettative, delle performance, del bisogno di funzionare.
Lo farò per me. Ma anche per il lavoro.
Perché le organizzazioni hanno bisogno, oggi più che mai, di persone capaci di pensiero autonomo.
Liberate da pregiudizi e condizionamenti.
Solo così potremo riportare, insieme, la crescita autentica nelle aziende.
E tu?
Qual è la tua piccola rivoluzione da iniziare?
Se lo desideri, scrivimi nei commenti, oppure in privato, nel mio blog.
Credo che dal dialogo possano nascere nuove forme di consapevolezza, anche nelle organizzazioni.
Perché forse il cambiamento comincia da qui: da una conversazione vera.
Una alla volta.
Come i gradini di mia madre.