Una parola poetica racchiude connessione, accettazione, comprensione, supporto e condivisione.
Vulnerabilità, fragilità, instabilità, debolezza, finitudine, vergogna, sono tutte parole per me poetiche che stanno cominciando ad entrare nel linguaggio delle organizzazioni o che almeno si iniziano ad usare.
Questo significa che, nell’utilizzarle nel nostro vocabolario quotidiano, abbiamo appreso l’arte di parlare veramente di noi, soprattutto nelle aziende, dove stanno cominciando ad entrare nel linguaggio “moderno”, in quelle organizzazioni che investono sui temi della D&I. Ma anche in queste organizzazioni colgo delle note dissonanti….
Quando chiedo alle persone:” Come stai?”, la maggior parte degli interlocutori non si prende neanche il tempo di sentire come sta vivendo in quel determinato momento, nell’istante in cui lo chiedo. Si dà vita così, nella dimensione relazionale, ai rituali sociali, definiti come:” una familiare interazione sociale che procede come fosse pre-programmata”. (Eric Berne)
Nel termine pre-programmata emerge prepotentemente che non sto parlando di noi, anzi, il più delle volte un rituale sociale dà vita ad un adattamento alle norme attese e non a come effettivamente ci sentiamo.
Quante volte la risposta statisticamente più frequente alla domanda “come stai?” si è consumata nel “Bene, grazie!”.
Emerge un senso delle relazioni così provvisorie, così veloci, così di fretta, così camuffate.
Prima di parlare di vulnerabilità, fragilità, instabilità, debolezza, finitudine, vergogna che ne dite di fare un po’ di allenamento, alla domanda: Come va? Come stai?”, prendendoci un po’ di tempo per allenarsi ad avere presenza a se stessi?
Recenti ricerche (Ethan Cross, Chatter, 2017) hanno dimostrato che il “dialogo interno”, dall’originale “self talk”, ossia dialogare con se stessi “aumenta la capacità delle persone di governare efficacemente i propri pensieri, sentimenti e comportamenti sotto stress». In particolare «utilizzando il proprio nome per riferirsi a sé durante l’introspezione, piuttosto che il pronome di prima persona “io”.
Per l’autocontrollo e la gestione delle emozioni, se ti chiami Marta: “Marta stai calma” è più efficace di “Stai calma”.
Prendiamoci del tempo per l’auto-dialogo, le nostre ruminazioni interiori, perché dicono le ricerche: usando il nostro nome nel dialogo interiore produciamo un auto-distanziamento da noi stessi, migliorando le nostre percezioni e i comportamenti interpersonali. Fermiamo la nostra scimmia nella mente che ci fa saltare da un argomento all’altro, da una inquietudine all’altra.
Buon investimento in voi e buona ruminazione!