Penso di poter affermare, pur non avendo girato tutto il mondo, che qualunque società si caratterizzi per il seguente stereotipo di genere: aspettarsi che l’uomo manifesti la “mascolinità” la donna la “femminilità”.
Se rifletto sulle conseguenze che questo insieme rigido di credenze condivise e trasmesse socialmente porterebbero alle persone che lavorano in contesti organizzativi globali, immagino che ci perdano tutti, uomini e donne, almeno sui temi: leadership e dell’ingaggio delle persone.
Ogni essere umano ha bisogno di esprimere i lati della propria personalità, senza soffocarne alcuno ed essere riconosciuto “amabile” per com’è.
Come uomo, se vale la norma sociale evidenziata, sarò eccitato ad esprimere lati della mia personalità come la lucida razionalità, la decisione, la competenza, l’assertività, l’essere forte. Potrei essere portato ad escludere, pagando con la non amabilità, l’intuizione, la gentilezza, la premura, la collaborazione, il rispetto, la delicatezza.
Come donna, se vale la norma sociale evidenziata, sarò eccitata ad esprimere lati della mia personalità come l’intuizione, la gentilezza, la premura, la collaborazione, il rispetto, la delicatezza. Potrei essere portata a negare i tratti cosiddetti maschili come la lucida razionalità, la decisione, la competenza, l’assertività, l’essere forte.
Se un professionista uomo possedesse solo tratti maschili potrebbe risultare brutale nell’esercizio della leadership e nell’ingaggio delle persone così come, all’opposto, la professionista donna potrebbe risultare mite. Entrambi metterebbero a repentaglio non solo le rispettive competenze, almeno nel contesto organizzativo, ma non risulterebbero maturi per poter agire ciò di cui loro come persone hanno bisogno: poter esprimere tutti i lati della propria personalità, sentendosi amabili.
Con questo preconcetto il professionista uomo rischia di mettere a repentaglio la spontaneità, cercando di controllare i suoi lati della personalità più femminili. La professionista donna, invece, in un mondo lavorativo non del tutto libero da machismo, potrebbe snaturarsi, negando la sua femminilità per accentuare la sua parte maschile.
Come fate voi manager a pensare che le persone abbiano bisogno di “riferimenti” che non hanno appreso l’abilità di “portare se stessi” in tutte le sfaccettature, ossia ciò che li rende unici?
Forse da questo deriva la vera depressione delle persone che lavorano nelle organizzazioni.
Aumenta la depressione nelle organizzazioni l’assenza di manager capaci di far vedere la propria corona della “femminilità” e della “mascolinità”, basata non sulle norme del ruolo di genere, ma piuttosto sulla capacità di sentire la propria unicità come un oggetto di conoscenza.
Appare evidente che il primo passo per ingaggiare le persone è armonizzare la parte considerata prerogativa maschile e femminile in ciascuno di noi, dando spazio a soggettività e unicità.
Serve forte crescita dei responsabili cosiddetti leader per prendersi seriamente cura della trasformazione della cultura manageriale, generando risvolti interessanti sull’etica del lavoro.
La trasformazione della cultura manageriale è fondamentale. La #consapevolezza di sé contribuirà positivamente alla #responsabilizzazione sui risultati e alla #autonomia in tutti i livelli dell’organizzazione.
In questi anni recenti è molto in voga ”addestrare ” alla cultura della diversità e inclusione.
Secondo voi è possibile lavorare sulla D&I se le persone dell’organizzazione non hanno ancora appreso l’arte della crescita “dell’intera persona”?
A me sembra di imboccare un sentiero con la prospettiva di rimanere stupefatti dal viaggio per una possibilità imminente per poi finire più che altro in una pietraia, senza traccia erbosa.
Sento frequentemente parlare di disfare il concetto di genere per investire in progetti di diversità e inclusione.
Personalmente più che disfare protenderei sul riparare.
Posso ripararmi da una tempesta e posso riparare l’orologio come fa l’orologiaio.
E’ la parola che a che fare con il lavoro anziché con la distruzione che è interessante.
Per aggiustare devo guardare con attenzione il danno (la negazione forzata del maschile o femminile in ciascuno di noi a seconda che si sia donna o uomo) e progettare passo dopo passo la riparazione.
Prendo in prestito delle parole che la meravigliosa Liliana Segre ha detto ai giovani: “Io non perdono e non dimentico ma non odio”.
Non disfare il concetto di genere ma lavorare alla possibilità di riparare significa lavorare alla possibilità di “nascere” di nuovo, con la consapevolezza delle proprie ottime strumentazioni.
E giunti a questo punto….cosa possono fare le organizzazioni per abilitare esperienze di apprendimento che forniscono opportunità di #autoriflessione e di creazione di significato?